Raccontare senza giudicare. Intervista a Lorenzo Cremonesi
Inviato per il Corriere della Sera, da più di 25 anni Lorenzo Cremonesi lavora in prima linea per raccontare la guerra. Coraggio e passione i suoi moventi.
Non è avvilente per chi fa un mestiere come il suo constatare che sui media italiani i servizi scandalistici trovano più spazio delle crisi umanitarie?
Ogni tema ha dei momenti di gloria e dei momenti di difficoltà. Oggi l’inviato di guerra si trova in una situazione di certo non facile. Non è sempre stato così. Abbiamo vissuto un periodo molto intenso dopo l’11 settembre, con la guerra in Afghanistan prima e quella in Iraq dopo. Ma oggi c’è una stanchezza sia dell’opinione pubblica, che dei giornali. Non posso raccontare l’Iraq nello stesso modo in cui lo facevo nel 2003. Ci sono argomenti che attirano di più. Dovendo distribuire le risorse, il giornale preferisce indirizzarsi sulla grande notizia del momento, ossia la crisi economica che attualmente domina su tutto.
Non crede che posponendo una crisi umanitaria a una finanziaria si venga meno all’etica giornalistica?
Certo, sicuramente. Un grande quotidiano dovrebbe avere il coraggio di andare contro l’opinione pubblica, e non solo di assecondarla e seguirla. Dobbiamo imporre temi forti. Non importa se tutti vogliono leggere di Pippo Baudo o di sport.
Esiste, in questo senso, una lacuna nei quotidiani italiani?
Indubbiamente sì. I nostri giornali sono estremamente provinciali. Le prime 10 pagine sono colme di notizie che non importano a nessuno se non ai politici. Mancano le informazioni fresche e le grandi inchieste sono rarissime. Bisogna fare di più. Ritornare sul campo, raccontare della crisi economica come di quella umanitaria cercando di andare a fondo, di indagarne le cause. E si può fare solo recandosi direttamente sul posto, perché sulle agenzie questo non si trova. Ma non è colpa del giornalista. L’inviato fa pressione per partire, ma troppo spesso manca un riscontro dall’alto.
Come si riesce, di fronte a situazioni estremamente drammatiche, a non lasciarsi coinvolgere? A scindere l’aspetto professionale da quello umano?
Non è facile, ma bisogna cercare di mantenere un distacco e non immedesimarsi. Occorre sempre pensare al lettore che sta dall’altra parte. In Afghanistan, ad esempio, alcune mie colleghe quando si trovavano ad intervistare i capi famiglia dei grandi clan li sfidavano attraverso il linguaggio del corpo, magari presentandosi senza velo. Questo, secondo me, è sbagliato. È una battaglia che non ha senso. Il nostro mestiere è un altro. Io vado per raccontare e spiegare, non per giudicare. Dopo spetta al lettore formarsi un’opinione. Non posso suggerirla io, altrimenti divento un censore. E finisco per imporre i miei sistemi morali.
Giulia Zaccariello