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“Ne ferisce più la penna che la spada”

Anche se siamo nell’era della comunicazione e di quella comunicazione che tocca ogni angolo della vita quotidiana, sembriamo a volte dimenticare quanto ciò sia vero.  La presenza al Festival Internazionale del Giornalismo di due relatori impegnati nel monitoraggio dei media in Israele e Palestina mi ha fatto riassumere consapevolezza della grande responsabilità che grava sulle spalle di coloro che vogliono rivestire l’onorevole ruolo di informare la società civile, soprattutto in un contesto di conflitto.  

Per chi si occupa di mondo arabo e informazione, un’ora e mezza a disposizione per ascoltare l’esperienza di Yizham Be’er (già giornalista per Ha’aretz, direttore del centro B’Tselem per la difesa dei diritti umani nei territori occupati e attualmente direttore del Centre of Protection of Democracy in Israel) e di Ruham Nimri (coordinatore del Media Monitoring Unit of the Palestinian Initiative for the Promotion of Global Dialogue and Democracy) che collaborano nell’ambito di un progetto di monitoraggio dei media in una zona tanto calda del Medio Oriente, è più che un regalo.

Sinceri entrambi sia sul successo dei loro progetti che sulle difficoltà che incontrano, Be’er e Nimri mi hanno dipinto un quadro a chiari tratti di quella che è la loro percezione dei problemi che riscontrano nei media locali e dell’importanza che un cambiamento di prospettiva da parte degli stessi potrebbe rivestire.  “Non esiste una sola verità – esordisce Yizham Be’er – e proprio per questo bisogna cercare di dare al pubblico una visione più completa possibile delle diverse opinioni. Quello che noi facciamo è girare come mosche noiose attorno alla testa dei giornalisti per ricordare loro di fare bene il loro mestiere”. Il problema maggiore dei media israeliani va ricercato nella mancata corrispondenza fra la notizia riportata dal giornalista e il titolo e sommario scelti dall’editore. Per quanto la notizia possa essere aderente alla realtà dei fatti, sono i titoli a colpire i lettori e a creare quella che Be’er chiama “narrativa”, lasciando intendere il significato negativo che assegna oggi a questa parola, che è effettivamente capace di influenzare la società nella sua percezione dei fatti.  “La giustificazione degli editori? – ammicca Be’er – “Kisses”. Alla mia faccia perplessa, spiega: “La regola per scegliere i titoli. Keep It Short, Simple & Stupid” .

Un esempio aiuta a capire: dopo il fallimento del processo di pace di Oslo del Settembre 2000, l’idea che è stata costantemente diffusa dai politici e, per riflesso, dai giornali era quella del “è colpa dei palestinesi. Abbiamo offerto loro quasi tutto e loro hanno rifiutato reagendo con violenza”. Ergo, non abbiamo un partner con cui comunicare e tutte le scelte devono essere prese unilateralmente. Come in ogni paese del mondo, il fatto che i politici insistano su un’idea non si trasforma automaticamente in una convinzione popolare. Ma quando anche i media propongono lo stesso tipo di discorso (e parliamo di media in uno dei paesi del mondo con il più alto consumo di giornali quotidiani!), allora il gioco è pressoché fatto.  E, secondo Be’er, non solo da parte israeliana, ma anche da parte palestinese dove gli estremisti di Hamas hanno trovato terreno fertile grazie a questa “narrativa” totalmente sfavorevole nei confronti dei tentativi di mediazione dei moderati. 

Al di là del muro, la situazione che si incontra è molto differente. Innanzitutto, mi spiega Nimri, “bisogna dividere fra l’informazione dei media locali e quella dei canali arabi transnazionali. Una volta fatto, bisogna dividere fra i media affiliati con Hamas e quelli dell’Autorità Palestinese che passano il tempo ad accusarsi a vicenda per la situazione a Gaza”. E considerando che parliamo, per i giornali, di circa 50.000 copie vendute al giorno su una popolazione di circa 1,5 milioni di abitanti, un contesto di informazione talmente variegato trasmette anche una sorta di confusione a chi guarda dall’esterno, e oserei dire anche a chi guarda dall’interno.

Ammirazione chiaramente percepibile nei miei occhi per chi mi confessa “mi aspetto solo che la situazione peggiori” ma che continua a lavorare per fornire strumenti di riflessione ai giornalisti tramite i rapporti che periodicamente vengono pubblicati dalla sua Media Monitoring Unit. Credo che molta della disillusione di Nimri venga dalla sua convinzione che in Palestina non siano tanto i media a forgiare l’opinione pubblica bensì il contrario. “Con i giornalisti, eccezione fatta per quelli del canale Al-Aqsa di Hamas, si può discutere su come fornire un’informazione più corretta ma tutte le regole saltano quando c’è un altro attacco e la gente ricomincia a morire”.

Ci alziamo dal divano, chiacchieriamo ancora un po’ sul Medio Oriente, zona a me tanto cara, e ci salutiamo. Nimri è perplesso per l’ora scelta per il loro incontro pubblico, le 9 di sera, e si chiede se qualcuno parteciperà. Io non mi pongo decisamente il problema. Dopo il tempo passato a discutere della stampa a casa loro, penso dentro di me ai problemi della stampa italiana e alle molte informazioni omologate e standard che arrivano qui da noi da quella zona del Medio Oriente e a quanto interesse invece riscuote il “caso” Israele-Palestina da chi vorrebbe notizie di prima mano…
La sala, infatti, era piena.    

Elena Dini

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