journalism festival e-zine http://magazine.festivaldelgiornalismo.com multilingual magazine Tue, 07 May 2013 16:03:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.7.28 Siria: quando gli attivisti si sostituiscono ai giornalisti http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4326 http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4326#respond Mon, 06 May 2013 09:20:08 +0000 http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4326

Foto: Salvatore Ruvolo

Cosa succede quando gli attivisti si sostituiscono ai giornalisti? Il conflitto siriano, uno dei più difficili da coprire mediaticamente, ne è un caso emblematico. A parlarne durante il panel Siria: guerra civile o guerra mediatica? sono Laura Tangherlini di Rai News, Paul Wood di BBC News, Ruth Sherlock del Daily Telegraph, il direttore di Small World News Brian Conley e Susan Dabbous, giornalista freelance vittima di sequestro da parte di un gruppo armato nel nord della Siria.

Sono i numeri ad aprire il discorso, cifre di un conflitto in corso da 750 giorni che ha causato più di 70.000 morti, oltre un milione di rifugiati nei paesi limitrofi e 3 milioni e mezzo di sfollati interni. Nonostante i dati, non è ancora chiaro cosa stia succedendo. Il reperimento di informazioni dalla Siria è di una difficoltà senza precedenti: il governo rende complicato l’ingresso diretto dei giornalisti nel paese, ma soprattutto è in corso un’operazione di propaganda portata avanti da entrambe le fazioni presenti. “Di conseguenza, – come sostiene Tangherlini – quando mancano inviati sul campo, il lavoro della newsroom consiste nell’affidarsi alle solite fonti, come ad esempio l’Osservatorio Nazionale, e nel selezionare tra i tanti contenuti provenienti dagli stessi combattenti”. La giornalista di Rai News procede riportando una dichiarazione di Amedeo Ricucci, reporter sequestrato assieme a Dabbous, secondo cui dall’11 settembre il lavoro del giornalista è cambiato perchè non è più il perno attorno a cui ruota l’informazione.

Paul Wood esordisce calcando questo aspetto, facendo notare come il conflitto siriano sia il primo ad essere presente su YouTube. In Siria tutto quello che succede è ripreso con telefonini e altri dispositivi per poi essere caricato su internet, spesso distorcendo le immagini presentate a fini propagadistici. Esemplificativo è il caso riportato da Ruth Sherlock sul video presentato come prova del supporto iraniano al governo di Assad, quando in realtà riprendeva l’atterraggio di un aereo seguito da un fascio di luce. “L’informazione – dice Wood – ha sempre un effetto tattico sul campo di battaglia e, soprattutto nel giornalismo di guerra, le uniche cose di cui ti puoi fidare sono quelle che vedi con i tuoi occhi”. Giornalismo sul campo e giornalismo elettronico non si escludono a vicenda, anzi si fortificano. “Strumenti quali Skype, – conferma Sherlock – possono essere estremamente utili e potenti, permettendo di raccogliere un grande database di testimonianze sulle vicende del conflitto”.

Susan Dabbous è andata direttamente sul campo a raccogliere le testimonianze dei profughi, successivamente integrate in un reportage realizzato con l’intento di proporre il problema della Siria in un momento in cui vi era una forte negazione in corso che riduceva il conflitto ad una generica soppressione delle proteste. “Giornalisticamente, diventa ancora più semplice – dichiara Dabbous – si torna alle tecniche rudimentali di questo mestiere: andare in un posto e raccogliere il più grande numero possibile di testimonianze. E’ quello che mi ha reso sicura da un punto di vista professionale nello scrivere la cronaca di un massacro.”

Il fulcro dell’attenzione si sposta sull’operazione di propaganda che vede regime e ribelli contendersi il campo della ribalta mediatica. Per quanto riguarda i ribelli, Dabbous e Sherlock concordano sul fatto che si tratti di una sorta di implicita richiesta d’aiuto, di una forma di pubblicità: “Quante volte abbiamo sentito un ribelle affermare: oggi 100 nuovi disertori sono passati dalla nostra parte. Dai numeri diffusi, il loro esercito veniva descritto come immenso. In realtà, era un modo per dire: siamo tanti, dateci le armi, possiamo combattere il regime”.

Uno sguardo alla televisione di regime mostra una strategia manipolatoria diversa, pervasa dalla retorica del complotto internazionale, che si avvicina alle tradizionali tecniche di costruzione del consenso. Dabbous spiega come coesistano due tipi di servizi televisivi che veicolano diverse strategie di persuasione, dal cui contrasto scaturisce la costruzione del consenso. Così, a servizi molto lunghi, ascrivibili a un tipo di propaganda grottesca, che riprendono soldati in tutte le versioni e posizioni possibili, si alterna un tipo di propaganda più sottile fatta di servizi ambientati in ambienti bucolici, con l’intento di fare vedere che la vita va avanti. “Il tutto è funzionale a mostrare un contrasto che demonizzi i terroristi ‘cattivi’. La propaganda non va vista solo nei suoi aspetti più evidenti, ma anche in quelli più infidi” conclude la giornalista.

Virginia Liverani @pollogiudeo

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Intervista a Eric Jozsef: Europa, il nostro destino http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4291 http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4291#respond Tue, 30 Apr 2013 17:45:43 +0000 http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4291

Foto: Pietro Viti

“Dovremmo occuparci di Europa come ci occupiamo di politica nazionale anzi, anche più di questa, se possibile.”

A margine del workshop che si è occupato dell’indebolimento del rapporto tra l’Europa e i suoi cittadini, il giornalista di Libération Eric Jozsef, riflette sulla carenza di copertura mediatica. I giornalisti sembrano non comprendere l’importanza di raccontare l’Europa e quando lo fanno, lo fanno male.

“Trovo che ci sia un grave deficit di informazione. Non tanto a proposito di quello che succede al Parlamento e nelle istituzioni europee ma a livello di dibattito politico.

In Italia, ad esempio, si parla molto di riforma elettorale ma il vero punto è la questione elettorale a livello di legge europea. La questione non è tanto di parlare di Europa in modo sistematico, istituzionale e quasi noioso. Bisogna parlarne per far capire che è proprio il nostro destino. Questa è la posta in gioco. Se vogliamo avere ancora qualcosa da dire nel mondo, se vogliamo difendere dei modelli a livello economico, sociale, sanitario, ambientale e culturale, allora dobbiamo parlare di Europa. La difficoltà sta nel percepire esattamente cosa fa l’Europa e cosa ci costerebbe se vi rinunciassimo”.

Perché tanta difficoltà nel raccontare l’Europa?
“Perché siamo vecchi. Lo sono la classe politica e quella giornalistica che vanno molto spesso di pari passo. In termini di dibattiti sono fermi su un mondo che non esiste più, che sta scomparendo. Non si rendono conto delle trasformazioni in atto, non vedono quanto oggi ci sia bisogno di Europa e che senza questa non avremo un destino come singole nazioni europee. Abbiamo classi dirigenti ancorate al passato, che pensano che quello che è importante è quello che succede all’Eliseo in Francia, o al Parlamento in Italia.

Quando dico che siamo vecchi è in questo senso. Non dobbiamo fare un ricambio generazionale soltanto per motivi anagrafici, ma perché il mondo sta cambiando e bisogna saper dare delle risposte. Quelli che dirigono i giornali, come chi dirige il nostro paese appartengono ad un altro modo di concepire il mondo e difficilmente accettano o hanno la capacità di mettere queste tematiche sul tavolo. Sono in pochissimi ad avere questo coraggio e sono troppi quelli che non hanno la lucidità di vedere che il mondo è cambiato”.

La carenza di legittimità nei confronti dell’Europa, è dovuta anche a una cattiva comunicazione mediatica?
“Si, senz’altro è una responsabilità dei media: media che fanno male il loro dovere. Pochi giorni fa alcuni giornali italiani hanno pubblicato, insieme, un supplemento europeo, all’interno del quale c’erano dei contenuti interessanti.

Un lettore medio, però, lo prende in mano e al massimo lo sfoglia perché sembra un mattone che hanno messo a parte. Come se l’Europa fosse una cosa a parte. Non hanno capito che invece è la nostra vita quotidiana, dove si giocano le grandi questioni politiche e economiche che non possono essere ridotte a un supplemento, uno “speciale “Europa”.

L’Europa oggi influisce su ogni singola tematica. Su ogni questione, dovremmo porci, quindi, il problema di cosa fanno gli altri paesi, qual’è la loro reazione e quale risposta potrebbe dare una comunità unita. Invece rispondiamo sempre a livello nazionale, tranne in rari casi, come quando si fanno questi speciali che nessuno legge”.

Come affrontare allora il tema “Europa”, quali consigli per i giovani giornalisti?
“I giovani devono chiedersi, in quanto cittadini, che cosa vogliono per cambiare il loro mondo quotidiano, la loro vita. Devono rendersi conto che le singole nazioni non hanno la forza di rispondere a queste sfide. Allora bisogna creare una stampa che corrisponda a questi nuovi bisogni. Devono imparare a dare una risposta alle sfide del nostro tempo.

In quanto cittadini, i giornalisti dovrebbero porsi la domanda “che cos’è che mi riguarda da vicino?” e imparare a rispondere. Per farlo forse servono nuove forme di giornalismo. Per la nuova generazione che ha un altro approccio, che ha fatto l’Erasmus, che viaggia low cost, l’Europa è un ovvietà. Sono quindi i giovani che devono trovare i modi e i mezzi mediatici per rispondere a questa attesa di Europa”.

Micol Barba -@micolbarba

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Hackathon e data journalism in Italia: ne parliamo con Alessio Cimarelli http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4311 http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4311#respond Tue, 30 Apr 2013 17:41:39 +0000 http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4311

foto di Martina Zaninelli

Hackathon è un termine che nasce dalla composizione di “hacker” e “marathon”. Una maratona di hacker (meeting)  per la raccolta dei dati, l’elaborazione e il racconto delle notizie con un approccio fortemente scientifico e moderno.  E’ quello che avviene di consueto nel data journalism, in cui partecipano sviluppatori, esperti di statistica, grafici e ovviamente giornalisti.

In questa intervista abbiamo approfondito l’argomento con Alessio Cimarelli, co-fondatore di dataninja.it.

 

È recente la diffusione degli hackathon in Italia?
Il data journalism è un concetto vecchio. Il giornalismo deve basarsi su dati oggettivi, anche non numerici. Il dato è un concetto ampio. Data Journalism si traduce in “giornalismo di precisione” che si differenzia dal “giornalismo di opinione”. Il dataset fornisce una base forte, ad esempio in questo hackathon sull’acqua (nel corso del workshop è nato  Acquathon … ndr) intervengono dei dati scientifici rilevati da professionisti. Il giornalista può rivolgersi a chi è in grado di capirli e tirarci fuori una storia giornalistica, quindi narrarli… questo nei paesi anglosassoni è una pratica di lunga data.

 

Ultimamente anche l’Europa sta diventando competitiva rispetto a questo modello giornalistico.
Si, in Italia se ne parla da tanto, ma sono pochi anni che si sta identificando come parte del giornalismo. Come ad esempio esiste il giornalismo sportivo, ora c’è il data journalism.

 

I vostri punti di riferimento per la condivisione dei progetti e dei dati?
I mostri sacri sono il Guardian e il New York Times.

 

Mi riferivo alle vostre piattaforme.
Si, ieri nasce il sito datajournalism.it e vuole raccogliere e proporre lavori inerenti al giornalismo di precisione ed “esperimenti”. Diciamoci la verità: mettere insieme tante professioni diverse è un terreno fertile per sperimentare. La rappresentazione può così andare oltre al semplice testo scritto e immagine. Nel Web puoi costruire vere e proprie applicazioni per informare. Cambia così anche il rapporto tra il giornalista e il lettore, il quale può essere coinvolto. È importante il fenomeno del  crowdsourcing: si possono usare come produttori dei dati le persone stesse.

 

Naturalmente tutto questo lavoro richiede tempo e sopratutto risorse. Ci sono enti o fondazioni sensibili a questo tema?
Si, un esempio lampante di progetto finanziato negli Stati Uniti è Pro Pubblica che nasce ed esiste perché finanziato da una fondazione. In Italia questo esiste meno, ma un punto di riferimento è Ahref, una fondazione che nasce a Trento, finanziata da vari soggetti come la provincia autonoma di Trento.

 

Secondo te in Italia c’è un pubblico di lettori abbastanza maturo per comprendere l’importanza del data journalism? Molti organi di stampa trattano temi importanti come se stessero scrivendo ai tifosi di una squadra di calcio.
Si, definire la maturità del pubblico sarebbe decisamente troppo per me, non lo farei mai. In Italia esiste il problema del digital divide e il data journalism moderno si fa sul Web. Richiede una connessione ad Internet, un computer…

 

Ma al di là del digital divide c’è anche la preparazione dell’italiano medio. Non basta avere una connessione a Internet per coltivare la cultura dell’informazione. I lettori italiani sono poco sensibili al fact-checking per esempio.
È vero. I giornali italiani sono molto poco giornali di precisione e sono molto giornali di opinione. I lettori spesso leggono quello che vogliono leggere e ascoltano quello che vogliono sentire. Non sono portati a mettere in discussione le proprie convinzioni e cercare voci discordanti per capire meglio in un’ottica di confronto. Però come tutte le culture si può spingere affinché, anche un’altra forma di giornalismo, abbia lo spazio che merita. A volte il lettore può essere partecipe della narrazione delle storie e questa è una forma di democratizzazione dell’informazione. Con i giornali di carta è difficile essere attivi, al massimo puoi scrivere una lettera alla redazione.

 

Parli del modello Huffington Post?
Si, il crowdsourcing pone i lettori come soggetti attivi che sono anche portatori di conoscenza. Pensa alla conoscenza di una comunità in un ambito locale. Il giornalista che viene da fuori tante cose non può saperle o non può vederle nella giusta prospettiva.

 

Il data journalism pensi che riscuota successo negli elettori di determinate aree politiche più attive nel Web, come ad esempio gli elettori del Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo?
Qui andiamo sulle opinioni.

 

Questa intervista contempla anche le opinioni.
Il M5S ha spinto molto sulla novità e sull’uso delle piattaforme online, anche per una forma di democrazia diretta. Poi un conto sono le parole e un conto sono i fatti. Il M5S è molto variegato: esistono tante anime. È bene che i giornalisti controllino e siano “cattivi” nei confronti dei politici. Non so se un elettore grillino è più interessato a forme di giornalismo di precisione piuttosto che altro. Il giornalismo che lavora identificando già un target, lo prenderei di cattivo occhio.

 

Ed avere un target credo che sia proprio ciò che non si deve fare.
Esatto.

 

Qual è il progetto più interessante di cui sei a conoscenza in Italia, nell’ambito hackathon / data journalism?
E’ una realtà ancora variegata, quasi artigianale. C’è la fondazione Ahref, Formica Blu e altre realtà che stanno spingendo molto. C’è wired.it che ha fatto bei lavori sulle scuole, sul rischio sismico nelle scuole. Poi è nato ieri datajournalism.it che deriva dalla fondazione Ahref e poi c’è dataninja.it che è la mia creatura e di Andrea Nelson Mauro: è un sito in cui noi proponiamo i nostri lavori, facciamo comunità, cerchiamo di mettere in contatto giornalisti, data-giornalisti e curiosi di data-giornalismo. Mettiamo insieme i pezzi che pubblichiamo per editori di vario genere… il giornalismo se viene pagato per riuscirci a vivere è meglio: non siamo eroi senza macchia e senza paura.

 

Fabio Andrea Petrini
@sweencity

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Il web e l’arte della manutenzione della notizia http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4483 http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4483#respond Tue, 30 Apr 2013 11:41:16 +0000 http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4483

Photo: Cecilia Duba

Non ci sono risorse, non c’è guadagno, non c’è lavoro. Ormai, lo ripetono tutti. Il giornalismo tradizionale non c’è più, è stato spazzato via e ridotto a brandelli dal digitale e da Internet. Ieri l’ha ribadito ancora una volta Emily Bell dalla sala dei Notari di Perugia. Ma quale integrazione tra versione cartacea e versione digitale? “L’unica soluzione è la disintegrazione!”, tuona l’ex direttrice dei contenuti digitali del Guardian. Il saggio della Bell è stato più volte citato nel corso della presentazione dell’e-book di Alessandro Gazoia, Il web e l’arte della manutenzione della notizia (scaricabile online per pochi euro), che presenta al lettore un attento e critico esame dello stato dell’arte del giornalismo in Italia.

Che il giornalismo sia cambiato e che occorra una ridefinizione e riconfigurazione delle redazioni, Luca Sofri, fondatore e direttore della testata giornalistica online Il Post, ne è convinto.

Il digitale impone a tutti gli attori del mondo dell’informazione un ripensamento circa i modelli di business e di sostegno che ruotano attorno alle testate giornalistiche. “Il problema non è capire come adattare il vecchio modo di fare giornalismo al “nuovo” mezzo; la sfida più difficile è invece pensare se ci sia qualcos’altro che possiamo costruire”, afferma Sofri. “Il modo per sopravvivere oggi non è replicare il passato e i precedenti modelli – ormai obsoleti – ma mettersi in discussione e inventare nuove forme e modi altri attraverso cui diffondere i contenuti”, continua il direttore de Il Post. È inutile e dannoso guardarsi alle spalle. Bisogna pensare in maniera creativa e proporre nuovi modelli di business in conformità a ciò che il presente offre, provando al tempo stesso a essere lungimiranti. Ed è, quello di Sofri, un invito che rivolge soprattutto ai giovani giornalisti o aspiranti tali.

Ospiti della presentazione, Vincenzo Marino, giornalista freelance, e Stefano Menichini, direttore di Europa, quotidiano e organo di stampa ufficiale del Partito Democratico. Lo stesso direttore del quotidiano romano ha raccontato il proprio punto di vista circa la necessità di trovare nuovi modelli di business che rendano le testate giornalistiche soprattutto auto-sostenibili e senza la necessità di ricorrere ai finanziamenti pubblici per l’editoria. Il caso del quotidiano romano, come raccontato dallo stesso Menichini è esemplare del fatto che, in un modo o nell’altro, le testate devono riconfigurare obiettivi e direttrici: Europa – secondo Menichini, “giornale politico di area, ma non di partito” -, dopo una violenta riduzione dei costi, punta a specializzarsi online sempre più verso l’analisi piuttosto che sulle notizie brevi.

Danilo Sergio – @DaniloSergio2

 

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L’Irpi per un giornalismo d’inchiesta in Italia http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4312 http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4312#respond Tue, 30 Apr 2013 11:30:38 +0000 http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4312

Foto di Paolo Visone

L’Irpi, un nuovo centro per il giornalismo d’inchiesta in Italia. LInvestigative Reporting Project Italy ispirandosi al modello americano sta cercando  di ritagliarsi uno spazio in un panorama, quello del nostro Paese, in cui il giornalismo d’inchiesta incontra non poche difficoltà. Grandi realtà di riferimento sono l’Associated Press e National Geographic.

Il panel che si è tenuto alla sala Lippi oltre alla partecipazione  di Leo Sisti, direttore esecutivo Irpi, ha visto coinvolti i co-fondatori: Cecilia Anesi, Guia Baggi, Cecilia Ferrara, Mara Monti e il giornalista freelance Giulio Rubino. Dopo aver raccontato dell’inchiesta intitolata Offshoreleaks che ha svelato i segreti di 122 mila società create nelle British Virgin Islands, nel mar delle Antille, e nelle Cook Islands, si è parlato di ciò di cui si occupa Il Centro: il giornalismo d’inchiesta, appunto,  a livello sia locale che transnazionale. Attraverso il cross border, che abbatte notevolmente i costi, vengono coinvolti a collaborare nei singoli progetti giornalisti da varie parti del pianeta. Sono infatti tanti i partner di cui l’Irpi si serve per investigare a 360°. “Limiti geografici non ne abbiamo – dice Giulio Rubino – e l’ambizione è quella di coprire tutto il globo”. L’Irpi offre anche altri servizi tra cui il fixing che consiste nel garantire assistenza ai giornalisti stranieri che vogliono svolgere delle inchieste in Italia.

I relatori hanno poi  sottolineato la necessità di insistere sul giornalismo d’inchiesta, considerato una necessità democratica all’estero che gode però in Italia di poca considerazione. In un periodo di crisi di contenuti e modelli, insistere sul giornalismo d’inchiesta potrebbe dare una scossa al settore dell’informazione.  La neo-nata Associazione è ancora alla ricerca di un modello sostenibile anche perché i giornali, in Italia, non hanno fondi da investire in un giornalismo che più di altri richiede tempo e denaro.  “Purtroppo – rileva Guia Baggi – il no profit è un settore che in Italia non dà garanzie per realizzare qualcosa”. Crowdfounding, 5xmille, Ong estere e la speranza di mecenatismo sono le fonti di finanziamento dell’Irpi. La ricerca di fondi presso quelle fondazioni che hanno come mission il giornalismo indipendente è la strategia adottata per raggiungere, quanto prima, un modello economicamente sostenibile.

Luigi Maria Rosseiello – @luigirossiello

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Le redazioni invisibili http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4559 http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4559#respond Tue, 30 Apr 2013 10:22:54 +0000 http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4559
Sono una giornalista ma non ho mai trascorso un’intera giornata di lavoro in una redazione. E non perché io sia lavativa. Semplicemente non ne ho mai avuto l’opportunità. Certo, direte voi, in pochi anni di esperienza non c’è nulla di strano. Io invece, ogni volta che ci penso, mi sento disorientata, confusa e anche un po’ spaventata. Come posso sapere se è il posto giusto per me – professionalmente parlando – senza averlo testato sul campo? Allora immagino le mie redazioni, dalle mille forme e dai mille significati. Così come le città raccontate da Calvino, c’è quella rimasta a metà e quella senza tetto. Quella a forma di gomitolo e di ragnatela. Quella che sta sull’acqua come una palafitta e quella staccata dal terreno, in equilibrio su tanti, piccoli, pilastri.  Tutte, però, esistono solo nella mia immaginazione. Sono redazioni invisibili. Nella realtà le cose sono molto diverse. Le mie redazioni visibili hanno la forma di una stanza qualsiasi, di un letto sfatto, di una cucina,  persino di un balcone. Nella peggiore delle ipotesi io sono in pigiama, mentre l’intervistato all’altro capo del telefono mi immagina in tailleur. Ma soprattutto sono da sola. Nessun vocio di sottofondo, nessun rimprovero per una virgola al posto sbagliato, nessun commento fuori luogo. La luce è giusta, lo spazio sufficiente, la posizione quella più comoda. Tante volte ho pensato che, sotto sotto, la mia redazione visibile non è così male.

Poi sono stata al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia e ho capito che mi sbagliavo. Ho capito, in sei giorni, cosa significa vivere una redazione, o qualcosa che le assomiglia. Ho conosciuto quel momento della sera in cui gli occhi ti cominciano a pulsare ma hai ancora da chiudere un pezzo. Incroci uno sguardo che denuncia la stessa stanchezza e pensi che se ce la fanno gli altri puoi, anzi devi, farcela anche tu. Ho conosciuto l’adrenalina che sale quando sei soddisfatto di quello che hai fatto (e hai bevuto troppi caffè). La gioia che ti invade quando l’approvazione non viene più soltanto dalla tua testa ma anche dal sorriso di qualcun altro che ne sa più di te. Ho sperimentato la diversità dei pensieri, degli stili. Di vita e di scrittura. Di questa incredibile ricchezza, visibile e non soltanto immaginata, devo rendere grazie all’Ijf. Perché ora so che più dei manuali e dei corsi universitari, più dei consigli delle grandi firme del giornalismo italiano ed internazionale, quello che mi serve è il sostegno di chi è seduto affianco a me. Di tutti quei giovani che, come me, pur sentendosi dire dieci volte al giorno che nel giornalismo non c’è futuro, continuano a fare la loro parte. Calvino scriveva: “Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone“. Ho deciso. La mia nuova redazione invisibile sono loro.

Silvia Aurino
@SilviaAurino

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Claudio Bisio e Michele Serra per i diritti dell’infanzia http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4572 http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4572#respond Tue, 30 Apr 2013 09:58:51 +0000 http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4572

Foto di Paolo Visone

Nella mattinata di ieri il Teatro Morlacchi si tinge di azzurro. Sul palcoscenico la stravagante coppia Bisio – Serra, due tra i protagonisti della seconda edizione di Parla di Me, una rassegna di interviste e dibattiti sul tema dei diritti umani. Si avverte la necessità di accendere i riflettori su episodi spesso marginalizzati, perché venga loro data maggior rilevanza soprattutto nell’ambito del giornalismo e dei media.

Dopo la breve introduzione di Giovanna Zucconi, Claudio Bisio, tra comicità e malinconia, recita lo spezzone tratto dal suo spettacolo teatrale I bambini sono di sinistra, scritto con il contributo dello stesso Serra. I due hanno poi raccontato come vivono il rapporto con i propri figli, scatenando l’ilarità del pubblico con curiosità e aneddoti divertenti. “Mia figlia legge Il Fatto Quotidiano e disprezza Repubblica, rivela Serra, parlando di come, al giorno d’oggi, la formazione politica dei figli avvenga in modo autonomo, lontana dai condizionamenti dei genitori. È cambiato il modo di vivere la politica, noi eravamo più sicuri, più arroganti, più aggressivi”, prosegue il giornalista. Un grande cambiamento a livello generazionale, fortemente influenzato dall’impatto dei social network che hanno rivoluzionato il modo di informare e di informarsi. Ed è qui che il dibattito si colora. “Questo mondo a tratti mi spaventa” afferma Michele Serra, “mi spaventa che la mia identità sia in balia di chiunque. Ricevo quotidianamente le lamentele di chi sostiene di avermi scritto su Facebook senza aver ricevuto risposta. In realtà non si tratta di me. Su Facebook scrivono a me, ma non sono io”.

L’incontro si chiude con l’ingresso del Presidente dell’Associazione Unicef, promotore dell’evento. Parla di me ancora una volta, grazie anche alla partecipazione di ospiti illustri e alle loro testimonianze, si offre come ottimo punto di partenza per la salvaguardia e la tutela dei diritti umani, perché, come recita lo slogan della rassegna: “I diritti sono notizia”.

Viola Bellisai 

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Lucia Annunziata: intervista alla figlia della carta stampata http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4402 http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4402#respond Sun, 28 Apr 2013 17:56:55 +0000 http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4402

Photo Martina Zaninelli

Lucia Annunziata ha presentato ieri al Festival il nuovo Huffington Post Italia: un giornale online che cerca di mantenere e riproporre sul web i principi della carta stampata.

Un commento sul governo Letta: sarà più in grado di governare rispetto a Bersani?
L’ho solo adocchiato: sarà veramente difficile far funzionare un governo del genere oltre il minimo indispensabile, perché al di là delle questioni degli scontri di principio e al di là degli uomini, i programmi sono stati per vent’anni nettamente diversi. Penso che sia un governo che non può espandersi oltre un certo numero di questioni, quindi è un governo limitato nel tempo e nello scopo.

Come legge la spaccatura all’interno del Pd, anche alla luce delle elezioni del Presidente?
Alcuni dicono che il Pd è un partito mai nato: oggi sicuramente è un partito che non è unito. Penso che negli anni si siano delineate alcune ragioni: innanzitutto credo che non sia mai avvenuto un amalgamo tra cultura ex-comunista e cultura ex-popolare/democristiana. Però nel tempo ritengo che ci siano state altre stratificazioni di tipo territoriale (partiti del nord e partiti del sud) e anche di gruppi, di interessi o di potere  (i sindaci, gli amministratori, i giovani): esistono al loro interno diversi interessi e culture che non sono mai riusciti a essere veramente omogenei, ma che adesso la crisi della politica fa esplodere.

Qual è l’importanza della carta stampata, durante questo periodo di digitalizzazione dell’informazione?
Io sono figlia della carta, cartissima! Ho cominciato a scrivere con la Lettera dell’Olivetti, ho visto il mio primo computer quando avevo 34 anni ed era un Radio Shack! Però io credo che la carta stampata sia stata, non a caso, il veicolatore del grande giornalismo e che lì dentro ci sia una cultura e anche una garanzia di solidità del giornalismo, che entrerà tutta dentro il web. Peraltro io credo che la carta stampata a brevissimo non morirà: si modificherà e probabilmente avrà anche uno spazio inferiore a quello che ha adesso in termini numerici. Però non credo proprio che morirà, perché è la matrice, è come una nave madre del giornalismo e le navi madri non muoiono!

Chiara Compagnoni

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Roman Shleinov, investigative journalist of Vedomosti http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4477 http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4477#respond Sun, 28 Apr 2013 17:53:09 +0000 http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4477

Photo Rita Alessia Disposto

What challenges do investigative journalists face in Russia?

Investigative journalism in Russia has the same problems as anywhere in the world, because everywhere in the world public officials do not like to answer difficult questions. The problem in Russia is that the civil society is weak and can not influence on public officials the way citizens can in, for example, Europe or the USA. That’s why our officials feel quite safe. Sometimes they prefer not to answer any questions. Sometimes, they understand that even if this information will be published, nothing will happen.

What is the attitude that officials have towards journalists?

Even if the officials do not like the published information, they feel that no serious change will happen. So I don’t see difficulties for myself when I work. But for regional journalists, this can be a huge problem, because they are in a very closed system. They have regional governments, with regional officials, who are very close to each other. Sometimes they can send police to the office of the newspaper, and confiscate computers. There were cases in Russia when journalists were accused of various crimes. It’s better to look deeper into the Russia’s regional media, and small newspapers in Moscow. They have a much more difficult time, and it is much more dangerous.

So famous opposition newspapers don’t feel the repression at all?

This is the Russian reality. The circulation of Russian newspapers like “Vedomosti” , “Novoya Gazeta,” “New Times” magazine and “Forbes” are not so big. Officials usually do not care about their opinion, because they have less than one million readers. When the media reaches an audience of over one million, then they feel that something can be serious. That is why the television is under state control. You can`t imagine that state television will show some critics of “Gasprom” or something like this. We even give comments to state TV-channels, because sometimes we don’t know how they will turn these comments.

Did you have a negative experience with TV?

I remember that many years ago, some journalists from the state TV came and asked me questions about some criminal cases I was investigating. He asked me not to criticize the Prosecutor General’s office. The same people came to me again and asked to know everything about corruption at the Prosecutor General’s office. So it really  depends on what is going on in the political world. The censorship exists there.

What about an international network of investigative journalists, how often do you collaborate with your colleagues?

We do not collaborate too often. But a couple of years ago, I took part in the investigation dedicated to the asbestos industry. I discovered the Russian involvement with the global asbestos industry. In 2007-2008, we covered the smuggling of cigarettes from Russia to the EU and other regions. ICIG helps journalists from different countries stay in touch and ask each other questions. It is very helpful.

As you mentioned, sometimes investigative journalism in Russia does not have any results…

Nobody thinks that there will be a political change. We understand that the situation is much more difficult. There are no independent courts, there are no independent investigations and civil society. There is no reaction. But at least people know the truth. The most important thing is that information is out there. Yes, sometimes we do have no hope of change. We hope that someone, somewhere, will react and start his own investigation. Disappointment does not mean that we should not continue our work.

Anisimova Elena

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Intossicare la verità: quando i servizi segreti condizionano l’informazione http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4304 http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4304#respond Sun, 28 Apr 2013 17:44:15 +0000 http://magazine.festivaldelgiornalismo.com/?p=4304

Photo: Cecilia Dubla

Servizi segreti e informazione. Un binomio a tinte scure che, specialmente in Italia, evoca il ricordo dei grandi casi irrisolti del nostro paese.
In Italia esiste una legge – la n. 801 del 1977 – che vieta agli organi di stampa di tenere rapporti con i servizi segreti. Eppure questi rapporti esistono, ed è cosa nota che il lato oscuro dello Stato condizioni e manipoli l’informazione per i suoi scopi.
Ma come avviene questa commistione?
“Partiamo da un presupposto: non esiste un ambiente informativo pulito ed uno sporco. Giornalisti, uomini di partito, polizia, organismi di sicurezza, studiosi e servizi segreti si muovono nello stesso mondo”, spiega Aldo Giannuli, autore del libro Come i servizi segreti usano i media. “La notizia arriva, per esempio, da una fonte istituzionale come un ministero, la questura, un sindacato, o comunque un luogo dove c’è un addetto stampa che emette informazioni. A quel punto un’agenzia di stampa lancia la notizia e il giornalista la riprende per utilizzarla nella sua inchiesta. Durante questo percorso i servizi hanno molti modi per infiltrarsi, per lo più indiretti, e far circolare le informazioni che sono più congeniali ai loro scopi”. Gli esempi di come questo avvenga possono essere i più banali: da una chiacchierata a cena tra un giornalista ed un terzo non ufficialmente riconducibile al servizio, ad un bigliettino lasciato erroneamente sul tavolo.
Le notizie che vengono fatte arrivare alla stampa non sono necessariamente false. “I servizi non sono ostili alle verità, le sono indifferenti. Il loro interesse è solo di mettere in circolo informazioni funzionali al gioco. Solitamente si tratta di notizie composte da elementi reali ed elementi veri, in modo da renderle il più suggestivo possibile”.

La versione fatta circolare dai servizi diventa credibile, viene fatta confusione, create più piste plausibili. Le indagini si intossicano e si rallentano, c’è tutto il tempo per far sparire eventuali prove. Il caso può essere gestito e direzionato nel modo più opportuno per lo Stato.
Questo grosso modo il modus operandi di quelli che vengono chiamati – a torto, secondo Giannuli – servizi deviati. “Non esistono i servizi deviati, per il semplice motivo che non esistono quelli rettilinei. Il servizio segreto è per sua natura una deviazione dello Stato di diritto. Il cono d’ombra che li protegge è opposto alla magistratura, non alla popolazione, alla stampa o che altro. Il sottinteso della creazione dei servizi segreti è che questi devono compiere reati per raggiungere lo scopo”.

Il più delle volte queste operazioni di copertura vengono fatte per sopperire alla necessità di gestire politicamente in maniera diversa il caso in questione. Un esempio su tutti: la vicenda della strage della stazione di Bologna del 1980. Il depistaggio era finalizzato ad evitare che certe forze politiche potessero essere favorite.

Tipicamente, il lavoro di copertura della verità e condizionamento delle indagini e dei media segue un certo ordine”, spiega Giannuli. “C’è una prima fase in cui si cerca di far passare l’avvenimento come un incidente. Nel caso della strage di Bologna, ad esempio, inizialmente si disse che si trattava dello scoppio di una caldaia. Successivamente, si mette in circolo una pista plausibile ma sbagliata. Se questa non riesce ad avere abbastanza presa, si operano forme di censura sottrattiva: sparizioni di testimoni o prove. Poi subentra una fase additiva, con  la comparsa di sedicenti teste chiave o nuovi elementi. Queste operazioni sono tutte finalizzate ad arrivare al momento in cui l’opinione pubblica si stanca e il caso cade nell’oblio. Raramente c’è un’ultima fase, quella dell’entropia: vengono emesse notizie vere e false per perdere tempo e far esplodere l’inchiesta. È quello che è accaduto nella strage di Ustica. L’inchiesta è impazzita”.

Depistaggio, occultamento delle prove, inquinamento delle indagini per celare una verità politica che non poteva essere detta. Reati commessi con la copertura della ragion di Stato. E in mezzo a tutto questo ci sono i media, spesso – paradossalmente – mezzo di intossicazione di quella stessa verità che vorrebbero raccontare.

Claudia Torrisi
@clatorrisi

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