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Hackathon e data journalism in Italia: ne parliamo con Alessio Cimarelli

foto di Martina Zaninelli

Hackathon è un termine che nasce dalla composizione di “hacker” e “marathon”. Una maratona di hacker (meeting)  per la raccolta dei dati, l’elaborazione e il racconto delle notizie con un approccio fortemente scientifico e moderno.  E’ quello che avviene di consueto nel data journalism, in cui partecipano sviluppatori, esperti di statistica, grafici e ovviamente giornalisti.

In questa intervista abbiamo approfondito l’argomento con Alessio Cimarelli, co-fondatore di dataninja.it.

 

È recente la diffusione degli hackathon in Italia?
Il data journalism è un concetto vecchio. Il giornalismo deve basarsi su dati oggettivi, anche non numerici. Il dato è un concetto ampio. Data Journalism si traduce in “giornalismo di precisione” che si differenzia dal “giornalismo di opinione”. Il dataset fornisce una base forte, ad esempio in questo hackathon sull’acqua (nel corso del workshop è nato  Acquathon … ndr) intervengono dei dati scientifici rilevati da professionisti. Il giornalista può rivolgersi a chi è in grado di capirli e tirarci fuori una storia giornalistica, quindi narrarli… questo nei paesi anglosassoni è una pratica di lunga data.

 

Ultimamente anche l’Europa sta diventando competitiva rispetto a questo modello giornalistico.
Si, in Italia se ne parla da tanto, ma sono pochi anni che si sta identificando come parte del giornalismo. Come ad esempio esiste il giornalismo sportivo, ora c’è il data journalism.

 

I vostri punti di riferimento per la condivisione dei progetti e dei dati?
I mostri sacri sono il Guardian e il New York Times.

 

Mi riferivo alle vostre piattaforme.
Si, ieri nasce il sito datajournalism.it e vuole raccogliere e proporre lavori inerenti al giornalismo di precisione ed “esperimenti”. Diciamoci la verità: mettere insieme tante professioni diverse è un terreno fertile per sperimentare. La rappresentazione può così andare oltre al semplice testo scritto e immagine. Nel Web puoi costruire vere e proprie applicazioni per informare. Cambia così anche il rapporto tra il giornalista e il lettore, il quale può essere coinvolto. È importante il fenomeno del  crowdsourcing: si possono usare come produttori dei dati le persone stesse.

 

Naturalmente tutto questo lavoro richiede tempo e sopratutto risorse. Ci sono enti o fondazioni sensibili a questo tema?
Si, un esempio lampante di progetto finanziato negli Stati Uniti è Pro Pubblica che nasce ed esiste perché finanziato da una fondazione. In Italia questo esiste meno, ma un punto di riferimento è Ahref, una fondazione che nasce a Trento, finanziata da vari soggetti come la provincia autonoma di Trento.

 

Secondo te in Italia c’è un pubblico di lettori abbastanza maturo per comprendere l’importanza del data journalism? Molti organi di stampa trattano temi importanti come se stessero scrivendo ai tifosi di una squadra di calcio.
Si, definire la maturità del pubblico sarebbe decisamente troppo per me, non lo farei mai. In Italia esiste il problema del digital divide e il data journalism moderno si fa sul Web. Richiede una connessione ad Internet, un computer…

 

Ma al di là del digital divide c’è anche la preparazione dell’italiano medio. Non basta avere una connessione a Internet per coltivare la cultura dell’informazione. I lettori italiani sono poco sensibili al fact-checking per esempio.
È vero. I giornali italiani sono molto poco giornali di precisione e sono molto giornali di opinione. I lettori spesso leggono quello che vogliono leggere e ascoltano quello che vogliono sentire. Non sono portati a mettere in discussione le proprie convinzioni e cercare voci discordanti per capire meglio in un’ottica di confronto. Però come tutte le culture si può spingere affinché, anche un’altra forma di giornalismo, abbia lo spazio che merita. A volte il lettore può essere partecipe della narrazione delle storie e questa è una forma di democratizzazione dell’informazione. Con i giornali di carta è difficile essere attivi, al massimo puoi scrivere una lettera alla redazione.

 

Parli del modello Huffington Post?
Si, il crowdsourcing pone i lettori come soggetti attivi che sono anche portatori di conoscenza. Pensa alla conoscenza di una comunità in un ambito locale. Il giornalista che viene da fuori tante cose non può saperle o non può vederle nella giusta prospettiva.

 

Il data journalism pensi che riscuota successo negli elettori di determinate aree politiche più attive nel Web, come ad esempio gli elettori del Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo?
Qui andiamo sulle opinioni.

 

Questa intervista contempla anche le opinioni.
Il M5S ha spinto molto sulla novità e sull’uso delle piattaforme online, anche per una forma di democrazia diretta. Poi un conto sono le parole e un conto sono i fatti. Il M5S è molto variegato: esistono tante anime. È bene che i giornalisti controllino e siano “cattivi” nei confronti dei politici. Non so se un elettore grillino è più interessato a forme di giornalismo di precisione piuttosto che altro. Il giornalismo che lavora identificando già un target, lo prenderei di cattivo occhio.

 

Ed avere un target credo che sia proprio ciò che non si deve fare.
Esatto.

 

Qual è il progetto più interessante di cui sei a conoscenza in Italia, nell’ambito hackathon / data journalism?
E’ una realtà ancora variegata, quasi artigianale. C’è la fondazione Ahref, Formica Blu e altre realtà che stanno spingendo molto. C’è wired.it che ha fatto bei lavori sulle scuole, sul rischio sismico nelle scuole. Poi è nato ieri datajournalism.it che deriva dalla fondazione Ahref e poi c’è dataninja.it che è la mia creatura e di Andrea Nelson Mauro: è un sito in cui noi proponiamo i nostri lavori, facciamo comunità, cerchiamo di mettere in contatto giornalisti, data-giornalisti e curiosi di data-giornalismo. Mettiamo insieme i pezzi che pubblichiamo per editori di vario genere… il giornalismo se viene pagato per riuscirci a vivere è meglio: non siamo eroi senza macchia e senza paura.

 

Fabio Andrea Petrini
@sweencity

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