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Dall’Iraq alla Siria: dieci anni di sfide alla sicurezza dei giornalisti. Intervista ad Amedeo Ricucci

Foto di Giulia Torreggiani

Amedeo Ricucci, inviato della trasmissione Rai La Storia siamo noi, è stato tra i protagonisti del  panel Dall’Iraq alla Siria: dieci anni di sfide alla sicurezza dei giornalisti.

Il mestiere dell’inviato di guerra sta diventando sempre più difficile soprattutto per i freelance. Quali precauzioni dovrebbe prendere un giornalista indipendente prima di recarsi nei luoghi di guerra e quali corsi dovrebbe frequentare?
Di corsi so che ce ne stanno tanti, ma vedo che purtroppo sono a pagamento e costano. Come sindacato (visto che lavoro nel sindacato dei giornalisti) e come istituzioni professionali, quindi Odg, dovremmo occuparci un po’ di più se non altro del problema delle assicurazioni, che è quello più importante. So che, in proposito, la Casagit sta facendo qualcosa. Bisogna rendersi conto che non si sta andando a un pranzo di matrimonio, si sta andando in zone dove comunque il rischio è in ogni angolo, per cui bisogna essere attrezzati. Bisogna esserlo sul piano delle competenze professionali, sul piano psicologico e anche su quello operativo: questo vuol dire giubbotto anti-proiettile, elmetti, abbigliamento non da passeggio, vuol dire anche preparazione fisica, purtroppo, e via dicendo.

Quali qualità fisiche e psichiche dovrebbe avere un giovane per intraprendere la professione di inviato di guerra?
Qualità fisiche ovviamente non ne esistono. Per quanto riguarda le qualità psichiche, bisogna essere delle persone non squilibrate, ovviamente, perché questo ti espone a ulteriori rischi. Bisogna essere dei bravi giornalisti. Come si diventa bravi giornalisti ognuno di noi lo calibra su se stesso. Io penso che sia il più bel mestiere del mondo. Se lo si fa non per farsi belli e farsi vedere dalle zie in televisione, ma perché ci si crede, ci si può tranquillamente attrezzare anche per fare il corrispondente di guerra.

Come giudica i reportage di guerra che vengono trasmessi dalla televisione italiana? Secondo lei sono all’altezza di quelli trasmessi dalle televisioni straniere?
Io non ne vedo di reportage di guerra trasmessi sulle tivù italiane, a parte i miei e quelli dei pochi colleghi che si ostinano a fare queste cose, trasmesse tra l’altro in orari impossibili. Altrove, in Francia, piuttosto che in Inghilterra, si dà ancora un certo peso. In Italia non c’è una tradizione.

In Italia stanno tagliando sempre di più nel settore degli esteri. Secondo lei da cosa dipende: scarso interesse dei lettori o ci sono altre motivazioni?
È un gatto che si morde la coda. È vero che i reportage di esteri o di guerra non hanno un’audience pazzesca rispetto ad altre stupidaggini che mandano in onda le tivù. È anche vero che, se il pubblico non viene educato agli esteri, non potrà certo apprezzarli. Io mi consolo pensando che in Francia c’è una trasmissione come Envoyé Spécial. Un programma che, spesso e volentieri, fa reportage di guerra e va in onda da più di vent’anni in prima serata. Vuol dire che, comunque, il genere è ancora vivo. Bisognerebbe forse osare un po’ di più.

Le misure di sicurezza che prendono grandi aziende come la Rai sono all’altezza di quelle di altri gruppi come il New York Times? Che differenza c’è, come vi muovete voi della Rai?
Le misure di sicurezza le prendono i singoli giornalisti. La Rai ovviamente, come tutte le grandi aziende, attiva delle polizze assicurative. Ma la gestione della mia sicurezza sul campo dipende da me. Sono io che sono responsabile del team con cui vado, sono io che mi organizzo con i fixer locali, con i producer locali, con gli interpreti locali perché ci vengano garantite condizioni di sicurezza. L’azienda non interviene sul mio lavoro, per fortuna.

Secondo lei gli articoli, non solo i reportage televisivi che circolano sulla guerra in Siria, sono troppo sbilanciati o a favore di Assad o pro-ribelli? Per esempio, si riesce a scandagliare bene la galassia dei ribelli?
Quando mi fanno questa domanda, e questo presuppone l’idea che si possa applicare la par condicio alla Siria, cioè che ci siano le ragioni di Assad e le ragioni dei ribelli, io mi incazzo. Perché non ha alcun senso metterla in questi termini. In Siria non ci sono due verità contrapposte. In Siria c’è un popolo che si è rivoltato contro una dittatura e lo ha fatto pacificamente per un anno. Ci sono migliaia di video e foto che lo testimoniano: il regime di Assad ha sparato sulle manifestazioni e ha costretto i siriani a prendere le armi. Che poi esista all’interno dell’opposizione siriana, all’interno di quella che tu chiami la galassia dei ribelli, una divisione con gruppi che sono più o meno jihadisti nulla toglie alla legittimità del popolo siriano. Per me non c’è altro da dire a questo riguardo. Poi possiamo discutere sull’agenda politico-militare di Jahbat al-Nusra, su quali siano le differenze con il Free Syrian Army. Ma sono dalla parte del giusto. Assad non ha alcuna ragione.
Aggiungo che, chiunque pensi che Assad abbia ragione, o in Siria non c’è mai stato o c’è andato con i viaggi Alpitour.  Ed è andato a visitare rovine archeologiche. I turisti Alpitour non hanno il diritto di esprimere opinioni sulla guerra civile in Siria. Sarebbe un oltraggio alle 90.000 vittime.

Maria Elena Tanca
@met81

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