Interviste: come raccontare l’indicibile
Nel day two del Festival Internazionale del Giornalismo, Gavin Rees, giornalista e filmmaker inglese, direttore del Dart Centre Europe (nucleo europeo del progetto ideato dalla Columbia Journalism School, denominato Dart Centre for Journalism & Trauma), ha tenuto presso l’Hotel Sangallo di Perugia un workshop dal titolo Interviste: come raccontare l’indicibile.
Il tema del seminario ruota attorno alla parola “trauma” e alle modalità di racconto, da parte di giornalisti e media, di eventi traumatici e/o catastrofici; particolare attenzione è stata dedicata al difficile momento dell’intervista. Difficile sia per quanto riguarda le vittime dell’evento, che spesso sono letteralmente assalite da giornalisti che formulano loro domande azzardate e, il più delle volte, inopportune. Difficile, però, anche dal punto di vista del bravo giornalista che si avvicina e desidera conoscere in maniera onesta la visione soggettiva di una persona vittima di un trauma.
Rees prova durante il workshop – durato circa un’ora e mezza – a fornire all’uditorio una metodologia riguardo ai modi più convenevoli attraverso i quali è possibile avvicinarsi e tentare un approccio con persone (le cosiddette “vittime” o “sopravvissuti”) la cui integrità psichica è stata minacciata da un evento traumatico come violenze sessuali, disastri naturali o conflitti armati. Attraverso esempi provenienti dalla propria esperienza di giornalista (come le interviste fatte nel 2009 agli “anziani” sopravvissuti al disastro nucleare del 6 agosto del 1945 a Hiroshima), Rees paragona il complesso momento dell’intervista a una lenta e costante danza, in cui, sia l’intervistato che l’intervistatore, si “muovono”, avvicinandosi e allontanandosi. Questa sorta di “movimento” è molto importante da tener presente perché indicativo di come si muova la conversazione tra giornalista e intervistato.
Il giornalista inglese enuncia poi la cosiddetta “regola dei terzi”, secondo la quale una buona intervista deve essere divisa in tre “zone”. La prima è quella che Rees definisce “zona di sicurezza”, in cui ci si limita a domande molto ampie e aperte, con attenzione al generale più che al particolare. La seconda zona rappresenta invece quella più pericolosa, nella quale si tenta di scavare nel profondo dell’intervistato. È questa una fase che richiede molta delicatezza, in cui, pur mostrando (senza ostentare) sicurezza e tranquillità, non bisogna mai spingere l’intervistato in direzione della colpa. Sono sconsigliate, in questa fase, frasi quali “capisco come ti senti”, piuttosto che “non ti preoccupare, tutto si risolve”. La terza zona chiude in un certo senso il cerchio: qui, è necessario tornare al punto di partenza, riporre se stessi e l’intervistato in una nuova situazione di sicurezza.
Altro punto importante è quello che riguarda l’onestà da parte del giornalista: è conveniente, infatti, avvertire l’intervistato delle conseguenze del colloquio e delle possibili mosse future da parte del giornalista (ad esempio, quando si intervista una donna vittima di violenza e poi si dovrà intervistare il presunto stupratore). È importante quindi che l’intervistato si fidi della persona alla quale si racconta, perciò non bisogna sottovalutare la tempistica: non forzarlo, ma aspettare che egli sia certo di volersi “concedere”. Se si hanno dubbi circa le mosse da compiere, è conveniente essere sinceri, informando con cura la vittima.
Non bisogna sottovalutare la “menzogna”: più che mentire, l’intervistato rimasto vittima di un evento traumatico racconterà il suo – unico ed esclusivo – punto di vista. Anche se il giornalista sa che l’intervistato non sta raccontando il vero, è bene che egli non cerchi di convincerlo del contrario.
Danilo Sergio – @DaniloSergio2