La fotografia secondo Michele Smargiassi
Erano i primi decenni del 1800 quando la fotografia ha visto la luce, in tutti i sensi. Da allora non ha mai smesso di suscitare stupore, dibattiti e controversie. Michele Smargiassi, giornalista di La Repubblica e autore di Un’autentica bugia. La fotografia, il falso, il vero, spiega come sia sbagliato chiedere alla fotografia di raccontare la verità: al contrario, è un mezzo di cui abbiamo bisogno non per dare risposte, bensì per continuare a porre domande.
Da cosa si riconoscono le foto migliori?
«La fotografia non è una sola. Se parliamo di fotografia giornalistica, credo che la migliore non sia quella che ci dice come sta il mondo: se chiediamo alla fotografia di dirci la verità, la fotografia ci inganna. La fotografia migliore è quella che ci presenta qualcosa e ci chiede di trovare il modo per saperne di più. È come se fosse un testimone balbuziente che porta qualcosa in mano, invita a guardare e solleva degli interrogativi».
Perché ha ancora senso di esistere la professione del fotogiornalista?
«Se pensiamo che la fotografia sia soltanto il frutto di una persona che schiaccia un bottone quando si trova di fronte a un evento, allora stiamo confondendo la testimonianza con il giornalismo. Il giornalismo non è soltanto la voce del testimone di prima mano, è selezione consapevole, filtro e semi lavorazione di una narrazione e la fotografia non fa eccezione. La fotografia, di per sé, non è una testimonianza, è il fotografo ad esserlo».
Quali sono gli aspetti della realtà che la fotografia deve ancora indagare?
«Ciascuno di noi ha in tasca un aggeggio che fa fotografie ed è evidente che, su qualsiasi evento, non sarà mai il fotogiornalista professionista ad arrivare per primo: per questo credo che la fotografia dell’essere nel posto giusto al momento giusto ormai sia superata. Il fotoreporter può liberarsi dal compito di essere a testimoniare l’evento in prima battuta e cercare di andare alle radici e seguirne l’evoluzione: raccontare storie da “dietro” come i testimoni occasionali non potrebbero mai fare».
Alessandra Pradelli – @qualcosascrivo