Giornalismo digitale, social media editor e collaborazione; l’intervista ad Anna Masera
All’ IJF12 si discute molto di collaborazione tra media mainstream e piattaforme partecipative, del ruolo informativo e pervasivo dei social media, della ridefinizione professionale dei giornalisti. E così abbiamo chiesto alla giornalista e social media editor de La Stampa Anna Masera di illustrarci il suo punto di vista su questi e altri temi.
Come raccoglie praticamente il pubblico dei social network per aumentare il traffico sul sito de La Stampa?
Facciamo diverse cose, io ad esempio uso storify. Lo uso da poco per creare alcune storie che nascono da social network; fai raccontare la storia dai tweet del pubblico, poi storify le embedda sul sito de La Stampa. Così il pubblico capisce che La Stampa è interessata a loro e così cerco di attirarli.
Ma i giornalisti sono più su twitter o più su facebook?
I giornalisti tengono aperto facebook tutto il giorno. E’ piattaforma ideale per chiacchierare per conto loro, e a volte capita che lo usino per lavoro. Twitter invece è usato esclusivamente per lavoro, per divulgare e andare a caccia di notizie; si mettono in mostra, linkano i loro pezzi e non vorrei mai che linkassero quelli dei giornali concorrenti. Non do freni ma basta che non si twittino siti concorrenti. Proprio per questo noi abbiamo fatto una pagina su la Stampa dove si trovano tutti i giornalisti della testata che sono su twitter, con biografia e link. In più hanno il dovere di non insultare e non battibeccare; ci sta il colloquialismo però una tantum.
Non crede che i social network abbiano chiuso in una sorta di recinto il popolo della Rete?
Si sono d’accordo, sono dei recinti e sono preoccupata perché essendo piattaforme chiuse non hanno lo spirito della vera internet, quella che seguo dagli anni 90, appena nata, che era una cosa aperta. Ma purtroppo se non sei lì non puoi comunicare. Accettare ciò significa accettare la violazione della privacy, un grande fratello continuo, pubblicità, spamming; io sarei per piattaforme più aperte e alcune ci sono come Identi.ca, che è forma nuova nata di social network diffuso come alternativo soprattutto negli USA. Credo che si debba tornare un po’ hacker, aver voglia di sperimentare e rimettersi in gioco, ma devo dire che è facebook è la più utilizzata e quindi dobbiamo esserci perché è lì che c’è la gente. Dobbiamo parlarne dei rischi ma da dentro.
E’ davvero utile la figura del social media editor per un una testata giornalistica?
Io devo ammettere che sono la prima social media editor in italia in un giornale grande e credo che prima poi tutti saranno dei social media editor, perché è essenziale saper stare sui social media. In questi mesi sono aumentati follower e fan e abbiamo ormai più click dai social media che da Google. L’obiettivo è avere più contatti per il giornale e far capire che siamo tra la gente.
A che punto è la collaborazione tra la redazione web e quella cartacea de La Stampa?
La Stampa è un giornale più piccolo rispetto a Repubblica o al Corriere della Sera che hanno fatto grossi investimenti sul digitale. Noi siamo più piccoli però siamo più innovativi nel processo d’integrazione; i giornalisti stanno cambiando il sistema editoriale per poter essere su carta e in contemporanea scrivere sul web, tra poco non ci saranno più divisioni. Io sono nell’ufficio centrale con gli altri del cartaceo; siamo dodici alla redazione web di cui 6 all’ufficio centrale cartaceo e 6 staccati che si occupano più della parte multimediale, dei video, delle rubriche, mentre quelli dell’Urc si occupano del rullo delle notizie, perché stare dentro il giornale ci serve per sapere il cosa vuole il direttore, quali temi trattare coinvolgendo così le firme che magari il giorno dopo scriveranno per il cartaceo ma faranno delle anticipazioni sul sito. L’obiettivo è avere le stesse firme sia su carta che sul web e con la nuova piattaforma quelle firme lo faranno da sole. Saranno in grado di decidere dove inserire i contenuti e La Stampa così sarà un grande unico marchio.
Nota ancora delle resistenze da parte dei giornalisti vecchio stampo?
Fino all’anno scorso le resistenze erano tantissime. Oggi con la crisi e con il rischio di perdere il posto hanno tutti una paura pazzesca ma anche voglia di sperimentare. Ci chiedono telefoni e smartphone, ma non siamo in grado di darli a tutti e dovremo anche istruirli e formarli al corretto uso.
So che ama molto i giornali partecipativi e l’idea di collaborazione tra cittadini e giornalisti. Quali sono le condizioni per coesistere e per proporre un giornalismo di qualità?
Il discorso del giornalismo partecipativo è complicato. Bisogna convincere anche gli altri colleghi che non la pensano al mio stesso modo. Non tutti sono d’accordo a coinvolgere i cittadini e c’è ancora una sensazione di diffidenza tra giornalisti, blogger e citizen journalist ed io combatto contro questo pregiudizio. Bisogna sapere scegliere; c’è citizen journalism di qualità, bisogna saper scegliere le fonti, dobbiamo fare lavoro di selezione e di filtro. Arrivano molte proposte semplicemente alla vecchia maniera; mi inviano il curriculum via mail con un articolo, con una richiesta di collaborazione e se funziona si collabora. Poi ci sono altri tipi di collaborazione più basici ma non abbiamo ancora una piattaforma partecipativa perché costa molto e gli investimenti di tale portata non sono possibili. Quando ci saranno piattaforme per il citizen journalism gratuite o a costi sostenibili io sarò la prima a proporre una maggiore collaborazione. Nel frattempo abbiamo creato un premio digitale dove chiedevamo di inviarci dei video che poi sono stati premiati con del denaro: 1000 euro al primo classificato e 500 euro al secondo e al terzo. Ci arrivano contenuti di qualità molto belli però tutto ciò costa e non abbiamo neanche risorse umane per poterli seguire e filtrarli.
Fabio Marcarelli