Messico, narcotraffico e giornalismo: o silenzio o morte?
L’avreste mai detto? Il Dipartimento di Stato americano considera i cartelli del narcotraffico messicani, soprattutto quello di Sinaloa, l’organizzazione criminale più pericolosa al mondo. Ancor più della yakuza giapponese, o della mafia russa, o delle nostre camorra, Cosa Nostra e ‘ndrangheta. L’incontro di ieri pomeriggio su Messico e narcotraffico, uno dei più attesi nella giornata di apertura del Festival internazionale del giornalismo di Perugia, dipinge uno scenario che in Italia in pochi immaginano e, soprattutto, conoscono.
Condotto con destrezza da Cecilia Rinaldini del Giornale RadioRai, l’evento dell’Hotel Brufani ha ospitato anche Gennaro Carotenuto dell’Università di Macerata, il giornalista americano Malcolm Beith (recentemente ha scritto “L’ultimo narco”, edito in Italia da Il Saggiatore) e due reporter della terra degli aztechi, Anabel Hernández e Cynthia Rodríguez. Parlano lingue diverse ma pensano alla stessa maniera: sulla situazione del Messico si fa, colpevolmente, poca, pochissima informazione.
La storia di Anabel Hernández ricorda, per certi versi, quella di Roberto Saviano: vive sotto scorta, ha ricevuto una minaccia di morte e lei stessa afferma che “prima o poi succederà”, perché “un ministro del governo Calderón ha assoldato alcuni criminali”. Tutto questo perché ha avuto accesso a certi documenti che testimoniano come, in realtà, ci sia una forte connivenza tra i cartelli del narcotraffico, le istituzioni e le forze di polizia. Quella della droga è una guerra che sta costando molte vittime: 40mila, dal 2006 a oggi, i messicani uccisi nella lotta tra cartelli rivali, con un’altra percentuale di giovani e minorenni.
Corruzione: è la parola che i vari ospiti citano con assidua frequenza. La situazione, complicatissima, di oggi non sarebbe possibile se il governo, da quello nazionale alle amministrazioni locali, non fosse così complice. E mentre c’è chi esalta la figura del “Chapo” Guzmán, il capo del Cartello di Sinaloa, c’è chi sottolinea come i suoi dieci anni di libertà dopo la fuga dal carcere di Guadalajara siano il frutto della negligenza delle forze di polizia. “Non è che non possono fare qualcosa. Non vogliono, è diverso” è la voce che si alza, all’unisono.
Ma una speranza, forse, c’è. E arriva dalla rete, quella rete che con i social network – Facebook e Twitter – ha dato voce agli oppressi, vedi le elezioni presidenziali in Iran del 2009 e le recenti rivolte nell’Africa subsahariana. Tutta la società civile messicana dovrebbe compiere uno sforzo, in una realtà dove denunciare un narco può mettere a repentaglio la propria vita, dove gli omicidi brutali di donne e minori sono all’ordine del giorno, dove esiste il posto più pericoloso al mondo (Ciudad Juarez). Anche gli europei possono fare qualcosa. Magari dando spazio alle proteste (censurate) sul sospetto di brogli alle elezioni presidenziali del 2006. E magari iniziando a pensare al Messico non solo come al luogo ideale per vacanze paradisiache – ma quelli sono solo villaggi turistici… – ma anche come ad una nazione che collabora a stretto contatto con le nostre organizzazioni criminali.
Simone Pierotti