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Intervista a Amedeo Ricucci, giornalista Rai e autore dell’inchiesta “Guerra, bugie e tv”

Il conflitto israelo-palestinese è anche un conflitto mediatico, le cui sorti si giocano spesso anche nel filone della propaganda. Come possono districarsi i media europei per offrire una visione il più obiettiva possibile della situazione?

Secondo me i media europei e internazionali hanno rinunciato ormai da anni a metterci le mani, nel senso che è un conflitto ormai incancrenito, va avanti da 60 anni, ha avuto un andamento ondivago, é stato sulle prime pagine troppe volte e l’attenzione dei mass media non è mai riuscita a favorire una soluzione del conflitto. Da anni siamo nel più totale menefreghismo: non interessa più a nessuno la questione israelo-palestinese. Ci sono delle responsabilità politiche, nel senso che l’attuale dirigenza israeliana non vuole che se ne parli più del conflitto, della situazione in Palestina, preferisce restare in questo limbo. Ha risolto il problema degli attentati kamikaze. La questione per Israele è risolta, potrebbe andare avanti così per anni  Sono i Palestinesi che, in teoria, dovrebbero continuare a protestare e manifestare, ma le divisioni che esistono tra Hamas e Autorità palestinese rendono impossibile una iniziativa diplomatica. Ogni tanto un presidente americano pur di farsi bello tira fuori una “Road Map” per risolvere il problema, ma a tutt’oggi non è stato risolto. E’ difficile vedere una soluzione. Se tu proponi oggi un servizio sulla Palestina su qualsiasi testata italiana o europea, ti rispondono: “Ma che serve farlo? Abbiamo già detto tutto e il contrario di tutto su qualsiasi situazione esista in Palestina”. C’è anche una sorta di scoramento nei giornalisti, che hanno denunciato violazione dei diritti umani senza che nulla cambiasse. Non c’è nessun caporedattore che ti autorizzi a seguire la costruzione del Muro, che peraltro continua, ma ti dicono “L’abbiamo già detto”. Sono caduti nel dimenticatoio, ma le responsabilità sono anche della leadership palestinese, che non ha saputo rinnovarsi, incapace di porre in termini diversi il problema della pace e dei “due popoli, due stati”

Breaking the silence”, è un’associazione di ex soldati che tenta di denunciare quanto avviene nei Territori Palestinesi. Esistono secondo lei dei contrappesi nella società israeliana?

Sono isole, estremamente ristrette, se tu vai sulla spiaggia di Tel-Aviv a chiedere di “Breaking the silence”, ti rispondono: “Ma chi sono?”. Così come succedeva con il movimento “Peace Now” ai tempi della prima Intifada, Israele è una grande democrazia, perché comunque è l’unica democrazia in Medio Oriente, però è un paese stanco, che non vuole sentire parlare di guerra. “Breaking the silence” ha fatto un ottimo lavoro ai tempi dell’ultima operazione “Piombo fuso” su Gaza e ha squarciato il muro di silenzio su quell’operazione. Detto questo però, è ritornata nel silenzio, non mi pare che notizie qualsiasi, che le denunce che arrivino da quel territorio riescano a scavalcare quel muro di indifferenza che c’è intorno a questa questione.

La questione degli arabi-israeliani è un problema interno alla società israeliana, anche perché sono ben 1 milione di persone. Cosa ne pensa di questo aspetto?

Questo è un problema che esiste, se ne è parlato più volte, sarà la demografia a decidere come finirà: le previsioni parlano di un aumento vertiginoso. Questo cambierà i rapporti di forza e lo scenario, ma è possibile che Israele decida di mandarli al di là del Muro, anche se nessun arabo israeliano accetterebbe. I trend di fondo vanno avanti, indipendentemente dal quadro politico e militare, che è abbastanza stantio. Ne torneremo a parlare, così come se ne parla dal’48, ma resto profondamente pessimista.

Tiziano Terzani diceva che a un giornalista capita di seguire una grande storia, al massimo due, nel corso della sua vita. Quale è stata la sua?

Le storie non te le scegli, ti si appiccicano addosso. Io ho avuto la sfortuna di avere appiccicata addosso la morte di un collega, morto a 10 centimetri da me e della cui morte mi sento in parte responsabile. E’ questa la storia a cui mi sento più legato, quella della morte di Raffaele Ciriello, caduto a Ramallah nel 2002.

L’esercito israeliano non ha mai ammesso le proprie responsabilità nella morte del suo collega. Cosa pensa di questo fatto?

L’esercito israeliano non ha mai riconosciuto responsabilità per la morte di nessun giornalista straniero caduto in terra palestinese o israeliana. Il copione è sempre stato lo stesso, all’inizio si scusano, poi dicono “non siamo mai stati noi a sparare”, poi dicono “l’avevamo scambiato per un miliziano palestinese”, evitano di concedere la rogatoria internazionale che permetterebbe ai giudici internazionali di interrogare i soldati israeliani. Non c’è nessun soldato israeliano interrogato, processato o messo in galera per aver ucciso un giornalista. Questi sono i fatti e a questi mi attengo. A parziale scusante degli israeliani, gli eserciti di tutto il mondo si comportano allo stesso modo. Fa parte degli incidente del mestiere? Probabilmente sì.

Alessandro Belotti

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