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Intervista a Fabrizio Gatti

Verso l’Apartheid?

Se sei clandestino i tuoi problemi, le tue difficoltà e perfino la tua stessa vita non importano a nessuno. Fabrizio Gatti ha partecipato al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia con lo spettacolo tratto dal suo libro “Bilal – vivere, lavorare e morire da clandestini”. Appena prima di andare in scena ho avuto modo di riuscire a fargli qualche domanda sul suo lavoro e su alcuni tratti tragici che caratterizzano questo paese.

D: Intanto buonasera e grazie per questa intervista.

R: Grazie a te, è un piacere.

D: Com’è nata l’idea di “Bilal: vivere, lavorare e morire da clandestini”?

R: E’ nata da un percorso professionale che comincia dalla cronaca nera e io come cronista di nera (allora lavoravo al Corriere) mi sono trovato a occuparmi d’immigrazione soltanto nei casi in cui i clandestini erano coinvolti in fatti di criminalità e mi rendevo conto che stavamo dando un’immagine distorta della realtà – eravamo negli anni ’90 – perché in realtà la maggior parte lavorava silenziosamente per l’Italia del 2000. E quindi è diventato naturale, non l’aveva fatto nessuno, percorrere anche la parte dell’immigrazione positiva, costruttiva. Il primo servizio dal di dentro è stato nel ’98: andai a vivere in una baraccopoli di muratori albanesi alla periferia di Milano, raccontando in questo modo la loro realtà, non attraverso l’intervista per cui alla fine dopo due, tre o cinque ore di colloquio ognuno andava per la sua vita, io me ne tornavo a casa e loro tornando alla loro baracca, ma cercando di raccontarla giorno e notte, vivendo dentro e di raccontare una realtà delle piccole cose perché siamo tutti persone e ciascuno di noi esprime la sua vita non solo per le dichiarazioni e i fatti importanti, ma anche per la difficoltà ad esempio ad aprire un rubinetto dell’acqua. Una delle cose che mi colpirono tanto in quel resoconto fu il fatto che per raccogliere l’acqua nei bidoni, eravamo a Milano, ogni sera dovevamo percorrere circa 3 chilometri… gli standards delle Nazioni Unite per i campi profughi sono punti d’acqua non oltre i 150 metri. Ryszard Kapuscinski raccontava di Luanda, in Angola, e di queste camminate di un chilometro, un chilometro e mezzo per andare a raccogliere l’acqua… qui eravamo a Milano e facevamo 3 chilometri ed è uno dei tanti elementi che rendono così immediata la difficoltà e tutte queste difficoltà di vita erano dovute semplicemente a norme che noi avevamo imposto. E così poi è stato un po’ come risalire la corrente fino alla sorgente e andare a raccontare tutte le tappe dell’immigrazione.
Quando ho raccontato Via Corelli nel 2000 mi è sembrato normale, soprattutto dopo i grandi naufragi del 2003 tra l’Africa e l’Italia, mi è sembrato doveroso andare a raccontare cosa succede prima delle partenze con le barche anche perché spesso erano barche destinate ad affondare, lo si vedeva subito, allora cosa spingeva le persone comunque a salire? La risposta andava cercata nel deserto, in questo viaggio terribile che poi ho raccontato in “Bilal” ed è anche rappresentato nello spettacolo stasera.

D: Leggendo “Bilal” viene un po’ difficile credere che gli immigrati facciano tutta questa strada, rischino così tanto per venire a delinquere in Italia perché c’è questa idea che l’immigrato sia per definizione delinquente

R: Be’, questo è dovuto al fatto che l’immigrazione, finita la Guerra Fredda e in qualche modo smontati i grandi ideali che hanno unito i popoli o li hanno separati dall’800 in poi, è stata utilizzata come argomento di propaganda ed è stata inventata una figura sociale che è quella del clandestino, che è una figura astratta e soprattutto quando si legifera se ci si riferisce ai clandestini con tutti gli attributi che sono dati, diventa normale considerare i clandestini un pericolo, dei nemici. Il mio lavoro di giornalista è stato proprio questo; raccontare chi sono i clandestini e che si tratta di persone con un nome, un cognome, un’età, una storia personale, un’ambizione, uno scopo di viaggio e quindi ribaltare quel luogo comune che spesso ci viene mostrato anche in funzione della ricerca di consenso perché se andiamo a vedere la fonte comunicativa di questo luogo comune bene o male sono fonti legati ai partiti, a certi partiti che vogliono creare consensi.
Da giornalista tra l’altro un viaggio nel deserto così non l’aveva fatto nessuno, né in Italia né in Europa, non aveva fatto nessuno nel resto nel mondo, se non i ragazzi, le donne e gli uomini che facevano questo viaggio per bisogno e quindi diventava normale dover restituire, questo è stato il mio lavoro, un’identità a chi noi avevamo spersonalizzato usando il termine “clandestini”. Quando affonda una barca noi spesso leggiamo, sentiamo ai telegiornali che è affondata una barca per esempio con 200 clandestini … quando casca un aereo di europei noi andiamo a raccontare le storie di queste persone; dei clandestini proprio ce ne freghiamo e quindi questo è stato il mio lavoro.
Poi c’è stata anche una motivazione personale: io vengo da una famiglia di emigranti, ma soprattutto era una sorta di prezzo da pagare anche personalmente perché io spesso mi trovavo come giornalista a fare interviste, prima di fare questi percorsi, e a chiedere anche le parti più difficili, più dure del viaggio e una persona che subisce degli abusi, delle violenze, non ha voglia di parlare degli abusi subiti. Io mi trovavo così come una sorta di voyeur perché sapevo che c’erano degli aspetti duri che dovevo raccontare da giornalista, ma premendo sulle persone perché li raccontassero mi faceva sentire responsabile di un abuso e poi alla fine questa situazione si risolveva col fatto che io la sera andavo a dormire in una casa calda, mi facevo una doccia calda e così via. Quindi sentivo che come persona impegnata, per motivi di lavoro, a occuparmi di queste storie, dovevo in qualche modo pagare un prezzo personale e mettermi io stesso alla prova, vedere se ero in grado anch’io, che tanto dovevo scrivere su questo, di sopportare dal punto di vista psicologico e fisico questo viaggio. L’ho fatto da una parte, come dire, fortunata perché, lo racconto nel libro e nello spettacolo, io avevo comunque in tasca un passaporto che mi riportava a casa, un passaporto che viene considerato dalla parte ricca del mondo… insomma fino a qualche decennio fa eravamo anche noi gli straccioni che facevano questo viaggio.
Era come un mettermi alla prova: prima di partire anch’io ho avuto le mie paure perché soprattutto il viaggio nel deserto non ha punti di riferimento; il punto di riferimento che avevo studiato era un diario di viaggio di un esploratore tedesco, Heinrich Barth che nel 1845 fa un certo percorso, un percorso al contrario, ma che è lo stesso dell’immigrazione che io ho fatto verso la Libia. Barth ripercorre il percorso fatto da un viaggiatore arabo, Ibn Battuta, 500 anni prima e lui racconta che 500 anni dopo i pozzi d’acqua sono ancora lì e io avevo paura di non trovare acqua durante questo viaggio perché mi chiedevo: se si rompe il camion fuoristrada, dove andiamo per sopravvivere? Io credo che nessuna notizia meriti la vita di una persona e da giornalista lo scopo è tornare vivo e raccontare, altrimenti si è dei maniaci in qualche modo. Barth diceva: “dopo 500 anni io ho rivisto gli stessi paesaggi, gli stessi pozzi”… io arrivavo 150 anni dopo Barth e ho detto: vabbe’, probabilmente li ritroverò anch’io… e in effetti sono ancora lì.
E poi mi mancava una notizia importante: avevo studiato tutto sulle carte, ma mi mancava il punto di riferimento dove trovare i passeurs che avviavano verso il deserto. Ad esempio a Milano ci sono dei passatori che organizzano i viaggi verso la Gran Bretagna, ma nessuno gira con un distintivo sulla giacca con scritto “sono un passatore” e la mia paura era quella di arrivare in Africa e non trovare come fare per inserirmi in questo traffico. Facendo delle domande alla stazione centrale di Milano, incontrando dei ragazzi che avevano fatto il viaggio mi è stato spiegato che tutto viene fatto alla luce del sole e di andare ad Agadez, questa mitica città che è la porta per il deserto è che lì avrei trovato facilmente i passeurs. Quando ho avuto quell’informazione avevo completato, almeno sulla carta, tutti i passaggi di questa inchiesta; poi è stata presa la decisione non solo di narrarla, ma anche viverla dal di dentro per cui in Tunisia, un po’ casualmente, un po’ rocambolescamente, mi sono ritrovato per una settimana a fare l’autista per uno di questi trafficanti perché lui era stato rinchiuso a Milano, in Via Corelli, e anch’io ero stato rinchiuso lì come finto romeno per raccontare questi centri dall’interno e così alla fine, quando gli ho raccontato un po’la mia storia senza dirgli che ero un giornalista, lui mi dà una pacca sulla spalla e mi dice: “Allora siamo compari e adesso andiamo a bere della birra”. E così ho fatto il suo autista per una settimana e ho visto i suoi movimenti, i suoi contatti, la corruzione che esiste attorno a questi viaggi.
Ritengo di non avere fatto nulla di straordinario, si tratta di esercizio e applicazione della Costituzione Italiana, di pretendere di vedere ogni settore della pubblica amministrazione e quando l’autorità, la legge e i regolamenti del Governo impediscono a un giornalista di verificare le condizioni di detenzione nei centri in cui vengono tenuti gli immigrati, questa è una violazione gravissima della Costituzione: si tratta di una censura preventiva e io ritengo che, per quanto possibile, una censura meriti soltanto un trattamento e cioè essere aggirata e così ho fatto buttandomi in acqua a Lampedusa e tutto il resto.

D: Hai parlato di spersonalizzazione degli immigrati e questo proposito mi viene in mente una vicenda personale: mia madre è polacca, vive in Italia da 30 anni e circa un paio di settimane fa era a fare un esame medico; il dottore, leggendo il suo cognome le ha detto: “per me se volete vivere in Italia dovreste cambiare cognome”, senza rendersi conto che stava chiedendo ad una persona di cancellare il suo passato

R: Io credo che un medico che dice questo andrebbe denunciato e radiato dall’Ordine dei medici perché il diritto a un nome, a un cognome, alla propria storia è un diritto fondamentale delle persone.
Io non ho mai paragonato le vicende dell’immigrazione a quelle della Shoah però quando una persona pubblica e importante chiede addirittura di cambiare un nome in qualche modo per vivere tranquillamente, mi viene in mente quando gli ebrei erano costretti a cambiare nome per sfuggire alle persecuzioni e noi abbiamo creato delle persecuzioni legali perché quando si impedisce alle persone di avere assistenza medica perché è un immigrato irregolare, ebbene… tutto questo è una persecuzione legale perché l’assistenza sanitaria d’urgenza viene garantita, ma ad esempio se uno si rompe una gamba, può farsi mettere il gesso in via d’urgenza però poi non può andare a farselo levare perché non è più considerata una procedura d’urgenza. E allora gli ambulatori di volontari come “Naga” di Milano sono pieni di persone che si trovano in queste condizioni. Questa è una legislazione disumana, soprattutto se si considera che noi siamo un paese che ha esportato nel mondo delle entità vergognose che si chiamano Mafia, Camorra e ‘Ndrangheta che sono nel Parlamento e che sono vicini al governo attuale, ma anche a quelli precedenti e questo è sicuramente il vero pericolo di questo paese. Se consideriamo poi che la nostra economia mediamente tra il 23% e il 25% è composta da economia sommersa, spesso condizionata dalla criminalità organizzata e se andiamo al Sud arriviamo a delle punte del 94% in Calabria vediamo che questo è il vero problema.
Io credo che un medico che pretenderebbe da un suo assistito di cambiare cognome per non avere problemi andrebbe radiato dall’Ordine dei medici perché il cognome è un diritto fondamentale di una persona, come il proprio nome, come la propria storia che non deve essere cancellata, ma deve essere rappresentata con grande orgoglio e soprattutto il paese che ha la fortuna di poter crescere col contributo di esperienze così lontane e così diverse si debba considerare un paese fortunato, tant’è vero che gli Stati Uniti se ne sono resi conto e hanno eletto Obama. Noi invece siamo in una fase di una forte e pericolosa Restaurazione.

D: A commento dei fatti di Rosarno, Saviano disse: “non solo gli immigrati spesso fanno lavori che gli italiani non vogliono più fare, ma sempre più spesso si trovano a difendere diritti che gli italiani non vogliono più difendere”

R: Roberto Saviano ha pienamente ragione e la dimostrazione è come lui è costretto a vivere. In Italia siamo tutti in libertà vigilata: finché siamo cittadini che non danno fastidio ad alcuni poteri particolari viviamo liberamente e siamo liberi di muoverci; se noi consideriamo la vicenda di Saviano, non solo quella di un grande e bravissimo scrittore, ma quella di cittadino qualunque, be’… lui era libero di muoversi finché non ha denunciato quella realtà che poi era quella in cui era cresciuto. Quello che è capitato e capita a Roberto Saviano può succedere a chiunque di noi, non succede se noi non andiamo a infilare le dita nella presa di corrente di questi poteri che costituiscono una parte del potere politico e del potere economico.
Quello che dice Saviano è vero: la rivolta a Castel Volturno degli immigrati, così come quella di Rosarno, è successa perché gli immigrati sono stati difensori di diritti che poi sono anche nostri, riguardano anche noi. Di Rosarno io trovo scandaloso che quel giorno della rivolta, intanto si sia arrivati alla rivolta e nessun rappresentante sindacale nazionale o rappresentato politico ha sentito il bisogno di andare a fare da mediatore là: doveva esserci qualcuno a interporsi tra queste realtà perché a Rosarno, per tre giorni e tre notti, noi abbiamo assistito a una caccia all’uomo; la gente sparava a chiunque avesse l’aspetto di uno straniero. La domanda è: perché una società civile, che in una democrazia si esprime anche attraverso i propri rappresentanti, si senta in dovere di mobilitarsi, cosa deve accadere? Questa è una domanda spaventosa che dovrebbe preoccupare tutti quanti, ma ancora consideriamo pericoloso un operaio che avendo perso il proprio lavoro dopo 6 mesi si ritrova nella posizione di regolarità e non riteniamo pericoloso ad esempio chi siede in Parlamento, come Marcello Dell’Utri per il centrodestra o Miro Crisafulli per il centrosinistra, che indipendentemente dal caso giudiziario di Dell’Utri (Crisafulli non è sotto nessuna indagine giudiziaria), indipendentemente dalle loro posizioni, per loro è stato dimostrato il contatto con la Mafia, che non è solo criminalità organizzata, ma è una setta politica e militare segreta.
Bene, un paese civile dovrebbe vietare e punire i politici, i parlamentari che non solo scendono a patti con la Mafia, ma anche soltanto incontrano la Mafia con la consapevolezza di avere davanti dei mafiosi.

D: A questo proposito, Borsellino, in una famosa lezione, sottolineò proprio il fatto che sta alla Magistratura valutare le prove e non condannare in assenza di certezze, ma una società civile e un partito si dovrebbero preoccupare della credibilità perché, per esempio, non è reato andare a cena con uno sospettato di essere un boss mafioso, ma pone sicuramente delle questioni…

R: Io credo che noi in questi anni siamo stati intossicati, come cittadini, dal concetto di par condicio; dovremmo invece recuperare un sentimento nobile che è l’odio, dovremmo cominciare di nuovo ad odiare la mafia perché la Mafia, la Camorra e la ‘Ndrangheta non meritano nessun sentimento di par condicio o di equidistanza, ma meritano un impegno civile perché queste realtà siano sconfitte in un programma di alcuni anni, con il rispetto ovviamente delle norme costituzionali. E allora dovremmo cominciare, come cittadini, a tornare a fare paura ai mafiosi. In questo momento loro hanno carta bianca, hanno libertà di movimento, arrivano a eleggere i loro rappresentanti in Parlamento. I politici arrivano a contattare in modo impunito i mafiosi, l’abbiamo visto non solo in questi casi citati. Dovremmo davvero ricominciare a fare paura ai mafiosi con un sentimento che, in questo caso, è nobile ed è quello dell’odio perché è l’odio di un sistema criminale che priva i cittadini delle libertà fondamentali, non solo costituzionali, ma previste dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo. Roberto Saviano non è l’unico; io penso a Lirio Abbate che è un grandissimo giornalista che lavora per L’Espresso ed è costretto a vivere sotto scorta; e così i magistrati, i testimoni che vivono sotto scorta. Sono normalissimi cittadini che hanno fatto il loro dovere di cittadini, non sono solo magistrati, scrittori o giornalisti o testimoni, ma sono cittadini. Per cui noi ogni giorno dovremmo chiederci da cittadini invece liberi, che hanno la fortuna di poter girare senza scorta, cosa stiamo facendo perché nella nostra società, nel nostro paese tutti siano liberi di circolare senza bisogno di essere scortati.
In realtà ultimamente, grazie anche alla posizione furbesca e complice di alcuni politici, è stato inserito il concetto di par condicio e in qualche modo se qualcuno del centrodestra è mafioso, bisogna trovarlo anche nel centrosinistra e viceversa. La mafia non merita nessuna par condicio: bisogna ritronare a odiare la mafia e i mafiosi.

Di Elena Fuzier Cayla

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