Il fuoco dell’obiettivo: i reporter guardano e raccontano la guerra
Qual’e’ il ruolo delle immagini nell’andamento di un conflitto? Questa e’ la domanda sul tavolo durante la panel discussion delle 11 all’Hotel Brufani, in cui intervengono Alfredo Macchi (inviato Mediaset), Diego Bunuel (National Geographic Channel) e Laith Mushtaq (cameraman di Al Jazeera).
La risposta e’ precisa e trova concordi i tre relatori: la comunicazione e le immagini hanno un ruolo decisivo nel determinare lo svolgimento e la conclusione di un conflitto.
L’esempio che viene fatto e’ il piu’ classico che si possa immaginare, ossia la guerra del Vietnam. L’opinione pubblica americana si riscosse solo dopo aver visto due foto ora nelle antologie del fotogiornalismo: la bambina nuda con il corpo bruciato dal napalm e il capitano vietnamita colto nell’atto di sparare alla tempia di un vietcong appena catturato. Il risveglio delle coscienza a seguito della visione di queste immegini sconcertanti per crudezza ed efficacia comporto’ di fatto il ritiro delle truppe americane e la fine della guerra.
E gli americani ne furono ben consci, tanto che nella successiva guerra del Golfo nel 1991 vietarono l’accesso ai fotogiornalisti nei campi di battaglia e fornirono loro stessi le immagini, trasformando la documentazione in propaganda.
Spiega Macchi che proprio dagli anni ’90 cominciano enormi difficolta’ per i fotogiornalisti: in primo luogo sono diventati bersagli per entrambe le parti in conflitto (e questo problema e’ emerso in tutta la sua gravita’ durante la guerra in Iraq, che ha visto numerosi giornalisti rapiti e/o uccisi). Inoltre le truppe hanno tutto l’interesse a raccontare la loro versione dei fatti e mostrare solo cio’ che fa loro comodo, percio’ tendono a vietare la libera circolazione dei giornalisti e a reclutarli come “embedded”, cioe’ uniti alle truppe. E questo e’ il secondo grande problema: essere embedded significa l’impossibilita’ di documetare realmente cio’ che accade e l’imposizione del punto di vista di chi accoglie il giornalista. Premesso che nessuna immagine o ripresa puo’ essere del tutto oggettiva, come ricordano a piu’ riprese i relatori, questo tipo di giornalismo scade facilmente nella mistificazione o nella propaganda.
Laith Mushtaq, nel suo intervento davvero toccante, sostiene che “tutti, militari e ribelli, vogliono che i giornalisti siano dalla loro parte (…) ma noi dobbiamo essere dalla parte della verita’, dobbiamo produrre un documento che funzioni adesso per chi lo vede in tv ma che dia idee su cosa e’ successo anche fra 50 o 100 anni”.
La discussione riprende molti elementi che erano gia; stati trattati nel corso di “Vedo o non vedo?”, panel sul giornalismo d’immagine tenutosi mercoledi pomeriggio, ma nel corso di questi interventi emerge ancora di piu’ l’aspetto umano e l’impatto che documentare la guerra, quindi l’orrore la morte e la crudelta’, ha sui giornalisti in quanto individui. Mushtaq fa scendere un silenzio partecipe ed assorto mentre racconta cosa si prova a stare in prima persona sul campo, senza possibilita’ di cambiare canale perche’ tutto e’ davanti agli occhi e senza nemmno poter girare lo sguardo perche quello e’ il tuo lavoro e il tuo lavoro ti impone di vedere e documentare tutto. Anche quello che non arrivera’ mai agli occhi del mondo, perche’ sarebbe troppo da sopportare, arriva lo stesso ai tuoi occhi di giornalista e tu devi sopportarlo da solo in nome di un compito piu’ grande, perche, come ci dice senza mezzi termini, “il giornalismo non e’ indossare giacca e cravatta e rilasciare interviste”.
Il cameraman di Al Jazeera nomina un elemento che anche i relatori del panel di mercoledi’ hanno menzionato come il piu’ sconvolgente: l’odore. Mushtaq e’ particolarmente crudo nel parlare dell’odore che ha sentito emanato dal liquido cerebrale di un uomo morto per un colpo di fucile alla testa. Dal suo inglese sempre piu’ insicuro per il crescere dell’emozione si capisce che quello che sta dicendo e’ vero: quell’odore, e in generale il puzzo della morte, non lo abbandonera’ mai in nessun momento della sua vita e questo vale per tutti gli altri che svolgono lo stesso mestieri.
Macchi rincara la dose spiegando che il personale umanitario inviato in zone di crisi riceve assistenza psicologica prima e dopo, mentre cio’ non avviene per i giornalisti cosi’ che molti di loro incontrano immense difficolta’ nel tornare alla vita “normale” tanto da cedere spesso all’impellente urgenza di tornare nella zona di guerra lasciata, poiche la’ si trova la realta’ che e’ entrata loro dentro.
Si nora dalle parole di queste tre persone quanto sia forte un’esperienza come la loro e soprattutto quanto sia difficile da spiegare a persone che non hanno mai visto quello che e’ sfilato davanti ai loro occhi. Soprattutto e’ ammirevole la loro passione, la loro vocazione verso la verita’, che li porta a non curarsi dei pericoli enormi che corrono, ad abituarsi al fischio dei proiettili sopra la loro testa.
Bunuel dice addirittura che per chi svolge il loro lavoro la morte e’ l’opzione migliore, perche non lascia neppure il tempo di capire cosa sta succedendo, mentre il peggio, il rischio reale, e’ restare invalido e mutilato. Ma concordano tutti che la passione e il sentimento di stare facendo qualcosa di alto porta a prendere consapevolezza di questo rischio e superare la paura.
Meglio di tutti lo spiega di nuovo il bravissimo Mushtaq: “ con il mio lavoro voglio mandare un messaggio: ogni morto era un essere umano come noi, con una propria vita, sogni, speranze, amori. Con le mie immagini voglio contribuire a fermare tutto questo”.