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Vedo e non vedo, spostare il limite più in là

Alle 15 presso l’ Hotel Brufani ha avuto luogo una panel discussion sul ruolo dell’immagine nel giornalismo, volta ad individuare l’opportunita’ da parte di televisioni e giornali di pubblicare immagini cruente o che in qualche modo potrebbero risultare disturbanti per spettatori e lettori.
Sono intervenuti Gianfranco Botta e Silvio Giulietti, videogiornalisti del Tg3, Pier Paolo Cito della Associated Press, Lorenzo Del Boca presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Antonio Polito direttore de Il Riformista e Roberto Chinzari del Tg2.
L’incontro si e’ aperto con la proiezione di un filmato realizzato dagli allievi della scuola di giornalismo radio e televisivo della scuola di Perugia che ha avuto un immediato impatto emotivo sulla platea: davanti agli occhi degli spettatori sono sfilate immagini che hanno segnato la storia del giornalismo d’immagine, come la bambina vietnamita che corre nuda in preda al dolore o la soldatessa americana con il detenuto al guinzaglio nel carcere di Abu Grahib, ed altre di ordinario orrore come donne lapidate, bambini uccisi dalla fame e corpi umani smembrati da esplosioni.
Nel discutere di quando e come sia necessario porre un limite alla pubblicazione delle immagini tutti i relatori si sono trovati d’accordo nel sostenere che il limite principale, e forse unico, dovrebbe essere quello dettato dalla deontologia professionale che lo stesso giornalista si autoimpone. Soprattutto Del Boca ha sottolineato come un limite imposto dall’esterno, per esempio dal direttore di una redazione, rischi di identificarsi con la censura, ragion per cui non si puo’ far altro che fornire indicazioni generiche in merito (prima fra tutte il non pubblicare dettagli scabrosi per puro compiacimento e sensazionalismo) e rimettersi alla coscienza e professionalita’ dei singoli giornalisti.
Il discorso di Del Boca rischierebbe di rimanere troppo teorico ed astratto se non venisse completato dall’intervento di Pier Paolo Cito. Il fotografo e giornalista della Associated Press infatti si sofferma lungamente a spiegare il modo in cui lui stesso opera, sostenendo che lo scopo delle immagini e’ quello di far capire a chi le guarda cosa sta accadendo in un determinato tempo e luogo e tale scopo puo’ essere raggiunto senza necessariamente indulgere su particolari raccapriccianti. A dimostrazione della sua tesi, Cito proietta alcuni immagini scattate da lui subito dopo un attacco kamikaze a Gaza, distinguendo quelle che ha messo in circuito da quelle che non sono mai uscite dal suo computer fino a quel momento. Grazie a questo piccolo slide-show, di certo non adatto a spettatori molto impressionabili, risulta chiaro quale sia il punto di forza di un’immagine drammatica ben realizzata: l’evocazione. Infatti un’immagine troppo cruenta non resta impressa perche’ fa scattare nella mente del fruitore un meccanismo di rifiuto che lo porta a “girarsi dall’altra parte”, mentre uno scatto evocativo, che ad esempio mostri il dolore e il cordoglio come conseguenza di un evento tragico e violento, e’ piu’ facile da ricordare perche’ appunto riassume in se’ un intero mondo di concetti e idee al di la’ dei singoli particolari “splatter”.
I successivi interventi di Polito e Botta approfondiscono questa questione e soprattutto hanno il merito di andare a sfatare il principale falso mito sul giornalismo di immagine, ossia l’assoluta obiettivita’ ed oggettivita’ di uno scatto o di una ripresa. Sia il giornalista del Tg3 che il direttore de Il Riformista pongono l’accento su come sia impossibile portare direttamente la realta’ (nel senso di quello che appare agli occhi di coloro che si trovano sul posto) al fruitore poiche’ essa perviene sempre tramite una mediazione giornalistica che per sua stessa natura, dato che e’ messa in atto da esseri umani, non puo’ mai essere neutrale.
In particolare Botta, mostrando un filmato da lui realizzato ad Haiti (e durante il quale nella sala leggermente vociante cala il silenzio), porta in rilievo la componente emotiva di chi realizza riprese o scatti, individuando propria in questa componente il primo strumento di selezione, basato principalmente sul pudore e sui tabu’ culturali condivisi, delle immagini che vengono colte.
L’incontro si chiude con un breve excursus storico proposto da Giulietti che, sempre con l’ausilio di video, illustra come le immagini mandate in onda fino a 15 anni fossero piu’ crude di quelle che si vedono oggi. D’accordo con Del Boca, Giulietti spiega quest’inversione di tendenza con il concetto di assuefazione all’orrore: vedere immagini forti smette di essere choccante e rientra nella norma, rendendo cosi’ inutile la pubblicazione delle immagini stesse.
E’ a proposito di questo tema che compare l’unico momento sgradevole, almeno a mio parere, di un incontro decisamente interessante e coinvolgente: parlando di esposizione indiscriminata di orrore, e conseguente assuefazione ad esso, viene immancabilmente chiamata in causa Internet e non sorprende che si trovi nel ruolo dell’imputata, parzialmente assolta solo da Polito. Tuttavia sarebbe stato bello sentire, almeno per una volta, personalita’ di spicco del giornalismo stampato e televisivo spendere parole positive a proposito del web.
Valentina Selmi

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