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Siria: quando gli attivisti si sostituiscono ai giornalisti

Foto: Salvatore Ruvolo

Cosa succede quando gli attivisti si sostituiscono ai giornalisti? Il conflitto siriano, uno dei più difficili da coprire mediaticamente, ne è un caso emblematico. A parlarne durante il panel Siria: guerra civile o guerra mediatica? sono Laura Tangherlini di Rai News, Paul Wood di BBC News, Ruth Sherlock del Daily Telegraph, il direttore di Small World News Brian Conley e Susan Dabbous, giornalista freelance vittima di sequestro da parte di un gruppo armato nel nord della Siria.

Sono i numeri ad aprire il discorso, cifre di un conflitto in corso da 750 giorni che ha causato più di 70.000 morti, oltre un milione di rifugiati nei paesi limitrofi e 3 milioni e mezzo di sfollati interni. Nonostante i dati, non è ancora chiaro cosa stia succedendo. Il reperimento di informazioni dalla Siria è di una difficoltà senza precedenti: il governo rende complicato l’ingresso diretto dei giornalisti nel paese, ma soprattutto è in corso un’operazione di propaganda portata avanti da entrambe le fazioni presenti. “Di conseguenza, – come sostiene Tangherlini – quando mancano inviati sul campo, il lavoro della newsroom consiste nell’affidarsi alle solite fonti, come ad esempio l’Osservatorio Nazionale, e nel selezionare tra i tanti contenuti provenienti dagli stessi combattenti”. La giornalista di Rai News procede riportando una dichiarazione di Amedeo Ricucci, reporter sequestrato assieme a Dabbous, secondo cui dall’11 settembre il lavoro del giornalista è cambiato perchè non è più il perno attorno a cui ruota l’informazione.

Paul Wood esordisce calcando questo aspetto, facendo notare come il conflitto siriano sia il primo ad essere presente su YouTube. In Siria tutto quello che succede è ripreso con telefonini e altri dispositivi per poi essere caricato su internet, spesso distorcendo le immagini presentate a fini propagadistici. Esemplificativo è il caso riportato da Ruth Sherlock sul video presentato come prova del supporto iraniano al governo di Assad, quando in realtà riprendeva l’atterraggio di un aereo seguito da un fascio di luce. “L’informazione – dice Wood – ha sempre un effetto tattico sul campo di battaglia e, soprattutto nel giornalismo di guerra, le uniche cose di cui ti puoi fidare sono quelle che vedi con i tuoi occhi”. Giornalismo sul campo e giornalismo elettronico non si escludono a vicenda, anzi si fortificano. “Strumenti quali Skype, – conferma Sherlock – possono essere estremamente utili e potenti, permettendo di raccogliere un grande database di testimonianze sulle vicende del conflitto”.

Susan Dabbous è andata direttamente sul campo a raccogliere le testimonianze dei profughi, successivamente integrate in un reportage realizzato con l’intento di proporre il problema della Siria in un momento in cui vi era una forte negazione in corso che riduceva il conflitto ad una generica soppressione delle proteste. “Giornalisticamente, diventa ancora più semplice – dichiara Dabbous – si torna alle tecniche rudimentali di questo mestiere: andare in un posto e raccogliere il più grande numero possibile di testimonianze. E’ quello che mi ha reso sicura da un punto di vista professionale nello scrivere la cronaca di un massacro.”

Il fulcro dell’attenzione si sposta sull’operazione di propaganda che vede regime e ribelli contendersi il campo della ribalta mediatica. Per quanto riguarda i ribelli, Dabbous e Sherlock concordano sul fatto che si tratti di una sorta di implicita richiesta d’aiuto, di una forma di pubblicità: “Quante volte abbiamo sentito un ribelle affermare: oggi 100 nuovi disertori sono passati dalla nostra parte. Dai numeri diffusi, il loro esercito veniva descritto come immenso. In realtà, era un modo per dire: siamo tanti, dateci le armi, possiamo combattere il regime”.

Uno sguardo alla televisione di regime mostra una strategia manipolatoria diversa, pervasa dalla retorica del complotto internazionale, che si avvicina alle tradizionali tecniche di costruzione del consenso. Dabbous spiega come coesistano due tipi di servizi televisivi che veicolano diverse strategie di persuasione, dal cui contrasto scaturisce la costruzione del consenso. Così, a servizi molto lunghi, ascrivibili a un tipo di propaganda grottesca, che riprendono soldati in tutte le versioni e posizioni possibili, si alterna un tipo di propaganda più sottile fatta di servizi ambientati in ambienti bucolici, con l’intento di fare vedere che la vita va avanti. “Il tutto è funzionale a mostrare un contrasto che demonizzi i terroristi ‘cattivi’. La propaganda non va vista solo nei suoi aspetti più evidenti, ma anche in quelli più infidi” conclude la giornalista.

Virginia Liverani @pollogiudeo

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