Diffamazione a mezzo stampa e caso Sallusti
Una sintesi delle norme sulla diffamazione a mezzo stampa (anche sul web) a cura dell’avvocato Marcello Bergonzi Perrone che al Festival del Giornalismo ha parlato, come caso esemplare, del processo ad Alessandro Sallusti.
«Come sapete – ha detto Perrone – secondo la Cassazione ci sono diversi limiti da rispettare per il diritto di informazione. Il primo è quello della verità che si basa sull’oggettiva descrizione del fatto. Poi c’è la pertinenza che obbliga a trattare notizie solo di pubblico interesse (per il pubblico di riferimento per cui si scrive) oppure la pertinenza indiretta se alcune notizie correlate sono utili ai fini dell’informazione ma senza mai travalicare nell’attacco personale. Poi c’è la continenza ovvero il modo in cui si deve raccontare il fatto: in modo leale, senza connotazioni superflue e maliziosità. Nel caso dell’inchiesta giornalistica e della satira (che è per definizione incompatibile con la verità) questi confini sono più elastici e ci si può basare anche sulla verità putativa.»
«Ci sono poi le norme speciali che regolano la carta stampata, ovvero solo quella “tipografica” anche se negli ultimi anni sono state in parte estese a radio, tv e web. Per la carta stampata infatti ci deve essere sempre un direttore responsabile e una registrazione della testata al Tribunale, altrimenti si incorre nel reato di stampa clandestina. La diffamazione può avvenire in diverse forme, non solo con un classico articolo. Per esempio nell’uso delle foto, dei titoli, della disposizione dell’articolo e nel caso di un attacco personale gratuito e reiterato. E per il web? Le cose sono un po diverse. per esempio il provider internet non è paragonabile ad un editore. Ogni commento diffamatorio (che spesso è nascosto da un nickname e quindi non rintracciabile all’immediato) scritto da terzi su blog e social media non è in alcun modo imputabile al gestore del blog (o social media) a meno che non ci sia una comprovata responsabilità diretta o indiretta.»
«Veniamo ad un caso noto che ci fa capire bene il funzionamento della giurisprudenza in merito, ovvero quello di Alessandro Sallusti. Salluti era direttore responsabile di Libero quando il 18 febbraio 2007 uscirono due articoli che raccontavano di un giudice che avrebbe costretto una ragazza ad abortire. Il primo era un articolo di opinione firmato con uno pseudonimo Dreyfus (che anni dopo si rivelerà essere Renato Farina), l’altro di cronaca firmato da Andrea Monticone. Il fatto si rivela distorto, già smentito il giorno prima da ansa e tv, anche se comunque l’ipotesi stessa sarebbe stata impossibile a norma di legge. Il giudice quindi chiede a Sallusti, in quando direttore responsabile, la rettifica e non la ottiene. Anzi il 23 febbraio viene rincarata la dose con un nuovo articolo a firma dell’avvocato Carlo Taormina. Quindi scatta allora la condanna a Sallusti e Monticone. Sallusti è accusato non solo di omesso controllo ma deve prendersi anche la responsabilità dell’articolo non firmato. Infatti secondo la legge lo pseudonimo è tutelato ma, se non si rivela, il direttore responsabile viene equiparato a colui che ha scritto l’articolo. Ai due vengono inflitte nel 2009 delle pene pecuniarie ma la legge sulla diffamazione a mezzo stampa in seguito impone anche la reclusione obbligatoria (che dura al massimo 7 mesi secondo le statistiche). Sallusti sceglie di non fare i servizi sociali per evitare la reclusione, anche se con la legge Alfano del 2010 è stata introdotta la detenzione “domiciliare” per espiazione della colpa se sussistono alcuni fattori come il non pericolo di fuga. Insomma, nella gestione della faccenda Sallusti sono state fatte commesse alcune imprecisioni da parte della magistratura, ma sicuramente il suo caso farà scuola.»
Enrico De Col