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Il biglietto da visita del giornalista precario

Indro Montanelli e la lettera 22

Indro Montanelli e la lettera 22

La conferenza sull’Ordine dei giornalisti era quasi conclusa, quando una ragazza ha alzato la mano per fare una domanda: “io sto seguendo l’iter per diventare pubblicista, si parla tanto di riforma dell’Ordine, che scatterà – forse – da agosto: e se non avrò finito i due anni, come risulta dai conti che mi sono fatta, che succederà? Dovrò ricominciare da capo?”.

La ragazza è stata rassicurata: se anche scatterà la riforma, per chi ha già intrapreso l’iter sarà garantito un periodo di transizione in cui completare il percorso. Bene. Siamo salvi. O forse no.

A fine incontro decido di avvicinarmi alla ragazza in questione per dimostrarle la mia solidarietà: ho lo stesso problema, quella domanda l’avrei fatta anche io. La trovo che parla con un ragazzo uscito dalla scuola di giornalismo e ora professionista. Insieme a noi tre anche un quarto aspirante giornalista si aggrega, e usciamo dalla sala continuando a parlare del problema, del nostro problema centrale: come diventare giornalista? Ha un senso aspirare a questa carriera, oggi?

Ci troviamo in strada, su un corso Vannucci invaso di gente. Io dalla Liguria, la ragazza da Roma, il ragazzo da Catania. Nord, centro, sud: siamo l’Italia intera. E siamo tutti e tre rappresentanti simbolici di un’intera nazione, pedine di un tabellone del precariato che non sembra aver stampata una casella “arrivo”. Il nostro quarto amico improvvisato sa di cosa parliamo, ci è passato e lo vive tutt’ora: la laurea, la difficoltà di farsi assumere con un contratto di praticantato, i problemi – immensi problemi – economici. Roba da tre euro a pezzo, i famosi tre euro a pezzo.

In pochi minuti ci riversiamo addosso cercando appoggio e comprensione tutto questo, e ancora l’impossibilità di frequentare una scuola di giornalismo perché troppo cara, l’inesistenza di percorsi formativi adeguati, la difficoltà di fare del giornalista una professione – LA professione – con cui e di cui vivere nella vita, la tutela impossibile da parte di qualsiasi organo sindacale a causa dell’assenza totale di una rappresentanza. Il nostro “cicerone” ci racconta la sua esperienza, fatta di studio, sacrifici e stress, ci chiede qualcosa di noi, prende i nostri contatti e ci lascia il suo biglietto da visita. Un classico, ordinato su internet a pochi euro: il biglietto da visita del precario, con stampata sullo sfondo una macchina da scrivere che solo da lontano evoca la mitica Lettera 22 di Montanelli.

Tanto lontana nel tempo, in fondo, la macchina da scrivere non è: sentiamo racconti di esami di Stato fatti ancora a macchina, esami farsa dove vincono le raccomandazioni e gli inganni. E noi tre, nord centro e sud, che tendenzialmente ci occupiamo di giornalismo culturale, assistiamo senza riuscire a commentare. “Non è giusto – dice la precaria romana – io sono costretta a fare un altro lavoro per potermi permettere di scrivere… Ma vuoi mettere la soddisfazione? Io sono contenta di riuscire a proporre articoli, a diffondere cultura, è così che dovrebbe funzionare il giornalismo!”. Il ragazzo di Catania non commenta, si informa, chiede quanti articoli ci manchino per arrivare al totale dei due anni. Sì, siamo tutti e tre nella stessa situazione. Ma per quanto questo possa infondere un certo coraggio da “mal comune mezzo gaudio”, io resto piuttosto pessimista: dopo un’ora di conferenza con rappresentanti del precariato, della stampa, del sindacato e dell’Ordine non siamo arrivati a nessuna conclusione: lo sfruttamento resta, arrivare al traguardo fasullo del tesserino da pubblicista non servirà a nulla, porterà via solo ulteriori soldi, tra quelli di stipendio che già non arrivano.

Intorno, corso Vannucci resta impassibile, la gente continua a passeggiare godendosi il primo caldo, assaporando l’estate che verrà. Noi tre ci guardiamo: nord, centro, sud. “Ragazzi – dico io – credevo di vivere una situazione strettamente legata al mio territorio, alla provincia, invece vedo che siamo tutti nella stessa barca”. Che affonda? Non lo sappiamo. Tra un ideale antico che ci anima, un cinismo troppo adulto che ci mette in guardia, e l’inesauribile curiosità di vedere come andrà a finire, ci stringiamo la mano augurandoci in bocca al lupo, e ci separiamo tornando alle nostre vite, al nostro Festival, con la consapevolezza, forse, di essere meno soli, anche se ugualmente precari.

Alessandra Chiappori

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