Intervista a Luca Telese
D: Buongiorno e grazie per questa intervista
R: Buongiorno e grazie a te
D: Vorrei iniziare chiedendoti qual è secondo te il segreto del successo editoriale de “Il Fatto Quotidiano”
R: No, nessun segreto: siamo un prodotto visibile del sostegno che la gente ci ha dato; non esisteremmo, come ripetiamo sempre, senza i nostri 40.000 abbonati. Siamo un giornale che non ha editori, ma è editato da tutte le persone che lo comprano – 110.000 in Italia – e quindi il segreto è crederci. Noi l’anno scorso abbiamo iniziato a pensare, come dei cospiratori, a un giornale che non avesse dei padroni. Abbiamo superato la catena psicologica più grossa che è quella di rinunciare alla certezza che hai e poi, come in un film di quelli americani con un lieto fine edificante, abbiamo scoperto che c’era un popolo che ci chiedeva di mettercela tutta, magari non essere perfetti, magari fare qualche refuso, magari sforzarci di più facendo un giornale in pochi, ma cucinando una pietanza onesta e quindi questo popolo, che chiede informazione corretta, legalità, di non guardare in faccia a nessuno, di costruire noi stessi un modello diverso ovviamente fa piacere e ci dà enormemente soddisfazione.
Alla fine la cosa più importante è che non c’è in Europa un altro giornale così quindi il fatto di aver creato un modello non vuol dire auto compiacersi perché chiunque può fare un giornale così.
D: Nel contesto attuale di crisi della carta stampata e di forte controllo e pressione della politica sull’informazione, quali sono le principali difficoltà che vi trovate ad affrontare
R: Guarda, la difficoltà più grossa è stata veramente cominciare, cioè credere che fosse possibile e abbandonare quell’idea che qualunque giornalista in carriera se ne va da una certezza per un’altra certezza: qui non c’era nulla, non c’eranp nemmeno le scrivanie, non c’era nemmeno la sicurezza che saremmo sopravvissuti per più di tre mesi, che erano quelli garantiti dal minimo di soldi che avevamo per partire. Dopo è successo che prima di fare il primo numero avevamo 3 milioni di euro in cassa e che adesso questi soldi stanno aumentando, abbiamo assunto persone, aumentato la foliazione e fatto un supplemento satirico. Quindi, non hai certezze… la certezza che io ho di fondo, ma credo sia condivisa da questo giornale e da chi lo fa, è che se tu fai qualcosa e ti metti in gioco la gente c’è, il pubblico c’è, ci sono migliaia di persone che sono pronte a comprare un prodotto diverso e questo lo dico anche perché per tanto tempo si son dette quelle cazzate, quei luoghi comuni: “i giornali verranno divorati da internet”… noi siamo un giornale che è nato da un sito internet.
Non esistono delle certezze date o delle leggi non scritte, esiste il fatto che in Italia c’è una grave mancanza di democrazia, una grave situazione della carta stampata e se tu fai delle cose – non solo noi, anche altri, pensa a Current – improvvisamente la gente arriva… pensa a “RAI per una notte” oppure pensa, in politica, ai ragazzi delle fabbriche di Nichi che in Puglia mettono k.o. gli apparati del PD facendo le primarie per Vendola con tre chiavette internet. Poi quando inizia ad essere diverso, racconti le cose in modo diverso. Io sono andato in Puglia, ho mandato il pezzo in redazione e m’hanno detto: “Ma a leggere questo pezzo sembra che Vendola possa vincere 70 a 30”… poi lui ha vinto 73 a 27: stanno cambiando delle cose nel mondo e internet ha un potere enorme; il tam tam ha un effetto amplificativo pazzesco.
Non è più come prima quando il padrone aveva in mano la rotativa e decideva cosa si stampava e cosa no: adesso un ragazzo con la telecamera è un guerrigliero che ti cambia le cose. Adesso tre ragazzi con delle chiavette internet possono fare sfracelli. Non c’è più nulla che è scritto perché c’è un passaggio d’epoca e quindi alcune cose avvengono controcorrente: la carta stampata serve come credibilità per quello che fai nella rete; la rete serve come amplificatore della carta stampata; le notizie ti arrivano da una parte e dall’altra; le foto fanno il giro del mondo; Minzolini fa il suo TG in cui c’è mezz’ora di Berlusconi e dei suoi sottopanza e un minuto di Fini, ma poi trovi già le versioni rap del duello in Piazza della Conciliazione… Berlusconi mette il suo regista e controlla le immagini, ma poi dopo il suo regista è costretto a usarlo come controcampo di una reazione in cui non è il protagonista. Non esiste più veramente un momento in cui si rompono alcune barriere, ma non solo in Italia; io penso all’Inghilterra: c’è stata una polemica pazzesca perché un deputato conservatore si è azzardato a dire che i Bed&Breakfast cattolici dovevano avere la possibilità di non ospitare dei gay; sempre in Inghilterra, un candidato che era dato come marginale, Clegg, improvvisamente con due duelli televisivi è passato in testa ai sondaggi… non c’è più nulla che sia scritto. Questo vale sempre nella storia, però la nostra piccola storia e quelle che cuce con il suo filo dimostrano che mai come ora è stato così.
D: Il tuo percorso è un po’ particolare perché tu vieni da “Il Giornale” e questa cosa fece scalpore
R: Sì, c’è stata anche una campagna prima che andassi affinché si disabbonassero perché arrivavo io e invece io mi sento di dire che è un elemento di forza bello di questo giornale. Io sono stato in tante redazioni, da “Il Messaggero”, al “Corriere della Sera” a “Il Giornale”, e ci sono delle redazioni in cui ci sono tante teste diverse, però c’è sempre una linea e la cosa bella del giornale che abbiamo fatto è che ha tante teste diverse che ogni giorno producono una linea diversa perché non è scritto nulla, non hai il cono d’ombra del tuo editore che ti dice dove devi andare: noi ci siamo presi a sediate in alcuni giorni per discutere su come dare una notizia e come darne un’altra, su chi era un leader vincente e chi no. E’ un prodotto libero della nostra discussione e penso che questo si veda: ci sono testi contraddittori sul Fatto; c’è l’articolo di Massimo Fini sulle donne che mi stava facendo litigare con mia madre, femminista storica, che gli puoi scrivere quello che vuoi su chiunque, ma se Massimo Fini scrive che “le donne sono una razza nemica” tira fuori il kalashnikov. Ma quel pezzo quanto ha fatto dibattere? Dove poteva uscire un pezzo così? Noi abbiamo avuto 150 mail di protesta subito dopo che era uscito il giornale e questo è un segnale che anche l’opinione più distante ha spazio, anche il pezzo sempre di Massimo Fini “Forza vulcano”. Sono pezzi che fanno riflettere e che altrove non possono esserci perché ci sono dei filtri, delle sovrastrutture, degli apparati esattamente simili a quelli della politica che dicono: “no, questa cosa sarebbe bella farla, ma non qui, non sul mio giornale”, oppure “non ora, il momento non è opportuno, non c’ìè spazio, mettiamolo in ghiacciaia”. Invece non lo metti in ghiacciaia, lo metti sul giornale e ecco che fai un percorso in più.
Il pezzo di Fini vagamente misantropico e razzista ha prodotto una reazione per cui molte ragazze e ragazzi hanno dato i loro contributi sul problema della differenza e della disparità al giorno d’oggi che è importante.
Abbiamo anche fatto delle piccole campagne; una, di cui sono stato responsabile è quella sulle assenze: un giorno ci hanno detto che era demagogia, il secondo giorno ci hanno detto che in linea di massimo era vero però quel numero di voti era solo teoricamente rilevante e al terzo voto c’erano 18 voti di differenza per cui i progressisti avrebbero messo sotto il governo di centrodestra se non ci fossero stati tutti quegli assenti. Poi la gente ci ha mandato le giustificazioni più disparate… ho fatto venire giù un teatro, non per merito mio, ma di Fioroni che mi aveva telefonato dicendo: “sai, ma io non potevo essere in aula perché ho una grave malattia lombare e non posso stare seduto”. Io ho scritto questa giustificazione, che già mi sembrava abbastanza singolare, ed è arrivato un lettore del Fatto da Torino che ha detto che Fioroni il giorno del voto era a una conferenza stampa proprio a Torino per presentare un’iniziativa. Allora io l’ho richiamato e nella sua risposta c’è una meravigliosa autobiografia della politica: lui mi ha detto che effettivamente era a questa conferenza stampa “ma ero in piedi”.
D: Pensa che lo stavo per dire io a battuta! Cambiando discorso, te, sul tuo sito, dici che non avendo parenti nel mondo del giornalismo ci hai messo 12 anni per diventare professionista
R: Sì e ne vado fiero: io sono quello che sono perché ci ho messo 12 anni. Per carità, ti auguro di mettercene due, uno, però è anche vero che ho visto tanti figli di papà a cui hanno regalato il praticantato nella torta di compleanno perché c’è l’editore che gliel’ha passato e devo dire che la cattività aiuta: il fatto di doversi ingegnare per fare mille lavori fa bene. Io ho dovuto, per un lungo periodo, stampare magliette e io ho fatto il giornalista con le magliette… ne facevo sulla notizia del momento, le andavo a vendere io e questa parte qui, che forse non sarebbe stata nel mio curriculum se avessi avuto subito la pappa pronta, adesso, dopo che è passato il diluvio penso: “meno male che l’ho fatto”. Io ho il piacere, non solo di scrivere, che è un piacere enorme perché per lungo tempo potevo fare solo le brevi e ormai pensavo solo “a brevi” nella vita perché anche la tua autobiografia la puoi fare per 600 battute, però poi quando arrivi a fare il pezzo di 1000 righe non sbrodoli perché hai in testa quella misura.
Il fatto di dover parlare, di dover raccontare ha poi fatto sì che alcuni di noi sono diventati, e penso a Marco Travaglio, dei banditori delle loro notizie. Qualcuno questo lo guarda con disappunto: “oddio, un giornalista che sale su un palcoscenico!”… perché loro vanno solo ai ricevimenti dove si bevono i cocktail con l’oliva, democratic party. Il fatto di dover raccontare è un esercizio che ti aiuta ad amministrare le parole e a pesare le idee, quindi tu devi dire delle cose. Se vuoi fare una battuta devi sapere cosa ha detto “la trota”, devi ricordartelo, devi diventare un archivio vivente.
Marco Travaglio prima di tutto è diventato un database, oltre a essere bionico come sospetto da tempo. Secondo me nel suo trolley non c’è niente di umano, ci sono degli hard disk esterni che collega al cervello. L’immagine che abbiamo al Fatto è che prima si sentono le ruote del trolley e poi arriva Marco da una destinazione sconosciuta e riparte verso un seminario esotico e nel mezzo scrive tre pezzi, quattro rubriche e il suo intervento per Annozero… chi l’ha detto che il giornalista deve essere il trombone col fazzoletto nel taschino che fa le quattro domande al telefono al politico? Il giornalista forse deve essere anche un po’ un tecnico guerrigliero e deve essere soprattutto animato da passione altrimenti, se non hai un’idea, delle cose, che cazzo vai a raccontare?
D: Cosa ne pensi del consiglio che viene dato da più parti ai giovani di andare via?
R: Bisogna appenderli a qualche pilone. Anche qui il caso veramente magistrale era quello della lettera al figlio scritta da Celli, uno che in Italia ha diretto praticamente tutto, dalle bische all’ATAC, alla RAI all’industria di Stato e dice: “che sconforto questa Italia, mio figlio se ne deve andare”… ma vaffanculo! Loro hanno sempre l’idea del master, vivono nei salotti e allora mandano il figlio a brucare l’erba in un prato inglese così poi tornerà e saprà quattro lingue e potrà esibire il suo PHD (dottorato, nda), col cavolo! Un vero insegnamento è che bisogna essere di un tempo e stare dentro quel tempo.
Non si fugge dall’Italia, magari si va a fare delle esperienze e si torna perché se tutti potessimo fuggire, prenderci una casa a Parigi, fare gli intellettuali dell’Aventino low cost, insomma… chi rimarrebbe qua?
Di Elena Fuzier Cayla