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Intervista ad Aldo Cazzullo

D: Lei ha affermato l’esistenza dell’ “anomalia italiana” e dell’interesse dei cittadini a questo riguardo. In che termini la definirebbe?

R: Il presidente del consiglio è anche il primo editore del paese e per come è strutturata la Rai controlla anche questa. E’ un dato oggettivo e, anche se alla gente non importa nulla, non è sanato dal voto.

D: Crede che oggi gli italiani abbiano la possibilità di informarsi oggettivamente attraverso la tv sulla politica e non solo?

R: Assolutamente no. Tre telegiornali sono di proprietà di Berlusconi e gli altri sono controllati dallo stesso. Detto questo, una volta che si è stati nominati dalla politica, c’è modo e modo di fare un telegiornale. Secondo me, ad esempio, il Tg2 e’ un ottimo telegiornale, è fatto molto bene. Tutto sta nei mezzi e nella capacità del diretttore di farsi rispettare.

D: Per lei la soluzione, o una delle soluzioni, all’anomalia italiana è la privatizzazione della Rai?

R: Non ci sara’ mai la privatizzazione della rai, perche nessuno la comprerà. In primis, perché i politici non la venderebbero; in secondo luogo non c’è nessuno che la comprerebbe, perché costa troppo e perché, una volta privatizzata, non si potrebbe richiedere il pagamento del canone.

D: mi permetta una precisazione della domanda. La proprieta’ pubblica della Rai permetterebbe ai cittadini di chiedere che le assunzioni avvengano per concorso pubblico e secondo discriminanti meritocratiche, incidendo, così, sulla qualità dell’informazione; la proprietà privata non lo permetterebbe. Allora le chiedo: lei, in linea di principio, è per la privatizzazione della Rai?

R: Se una cosa è impossibile non ha senso chiedersi se sarebbe una soluzione o no. In tutti i paesi europei esiste una televisione pubblica e in tutti è condizionata dalla politica, ma in nessun paese europeo lo è come in Italia. Le faccio un esempio: in Francia il primo canale è privato, il secondo e il terzo sono pubblici e di certo tutti non sono ostili a Sarkozy, ma non mancano di denunciare con chiarezza le contraddizioni del presidente, quando ci sono. In Italia ciò non accade

D: Lei crede che il sistema informativo e le dinamiche di accesso alla professione incidano sul livello di indipendenza del giornalista?

R: Certo. Se un giornalista è messo lì da un partito è ovvio che tenderà ad essergli grato e lo considererà il suo padrone o comunque il suo editore. Per fortuna nei giornali non succede più che un partito designi un redattore, come succedeva invece negli anni ’70 e ’80.

D: E’ realistico per lei che si modifichi l’accesso alla professione in senso meritocratico? In che modo?

R: Qualcosa sta già succedendo. Quando ho iniziato io a fare questo mestiere c’era solo una scuola di giornalismo: quella di Milano,che ho frequentato. Adesso ce ne sono tante, temo addirittura che siano troppe perché, come ho detto prima, la scuola di giornalismo ha senso dove c’è un retroterra editoriale. A Milano o a Roma chi esce dalle scuole di giornalismo ha collegamenti con televisioni e giornali, mentre altre scuole di giornalismo fatte molto bene in centri piccoli hanno più difficoltà a collegarsi con le grandi capitali editoriali. Sono, però, un grande paladino delle scuole di giornalismo, perchè senza, a causa delle mie umili origini, non avrei mai potuto fare questo mestiere e credo che siano un antidoto al meccanismo di cooptazione.

D: Secondo lei, quella posta da Fini è essenzialmente una questione politica e di democrazia interna al partito? In che modo, se lo fa, incide su tale giudizio la tempistica in cui è stata presentata?

R: La tempistica è di certo sbagliata, perché fare uno strappo del genere dopo una vittoria elettorale da parte di Berlusconi, che quindi ancora gode del consenso del paese, è stato un errore tattico da parte sua. Anche perché Berlusconi ha interesse a far sì che Fini vada via ora che ha pochi deputati, piuttosto che fra un anno o due quando potrebbe averne molti di più, quando il governo sarà più logoro e l’anagrafe avrà fatto il suo lavoro. La tempistica lui l’ha sbagliata, ma ormai non si tratta più di dialettica interna al partito. Fini sta cercando di tamponare la crisi dicendo che lui e i suoi resteranno all’interno del PdL , ma al primo scontro, che sarà inevitabilmente sulla giustizia, Fini sarà costretto ad andarsene. Vedrà che non farà il suo partito, ma si metterà insieme a Casini, Rutelli, Follini, Pisanu. Se questa fosse solo una sommatoria di nomenclature avrebbe ben poca attrattiva, ma se fosse, invece, un partito aperto ai giovani non garantiti, ai salariati stanchi di essere tartassati dal fisco, ai cattolici che non sono persuasi dalla Lega, in definitiva, se fosse un partito aperto e con l’obiettivo di tenere unito il paese potrebbe avere una grande attrattiva.

D: Per concludere, lei pensa che Fini credesse davvero che dando vita ad un partito unico con Berlusconi si sarebbero abbandonate le logiche padronali vigenti in Forza Italia a favore di pratiche di democrazia interna?

R: Forse e’ stato un errore, chissà. Credo che Fini abbia avuto paura di andare al voto -quando si capiva che le elezioni sarebbero state imminenti- solo con Alleanza Nazionale temendo di perdere bruscamente contro Berlusconi, dato che una parte di colonelli già obbediva al Cavaliere, perciò ha fatto buon viso a cattivo a gioco.

Intervista di Pompilio Salerno

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