Doppia oligarchia: la lunga anomalia italiana
I segnali facevano presagire che quella su poltica e televisione sarebbe stata una conferenza movimentata. Quando l’inizio era gia’ in considerevole ritardo Francesco Specchia, il moderatore, spiega che e’ perche’ Franco Debenedetti e’ rimasto bloccato nell’ingorgo creato dai tifosi perugini che protestano nei confronti di società ed istituzioni. In piu’ i tifosi, come evocati, fanno sentire la loro presenza durante tutta la prima parte della discussione, spesso funestata dai loro schiamazzi sulla piazza.
Il tema del complesso e malato intreccio politica-tv in Italia e’ uno di quelli che accende gli animi, infatti gli spettaori spesso esternano commenti indignati a voce alta; in particolare uno di loro tenta di iniziare una lite con Specchia, a suo parere responsabile di avere interrotto John Hooper, giornalista di The Economist, per lasciare maggiore spazio a Franco Debenedetti. Specchia riesce comunque a zittirlo con classe, evitando cosi’ che una discussione ragionata ed intelligente si trasformi in uno dei siparietti che tanto piacciono a Porta A Porta.
Oltre agli ospiti gia’ citati sono presenti Paolo Madron, giornalista economico, e Paolo Di Giannantonio, ex volto del Tg1. Quest ultimo e’ di certo il piu’ atteso, visto le vicende che recentemente hanno comportato il suo allontanamento dal video ed una buona parte dei presenti, moderatore compreso, si aspettano suoi commenti velenosi su Minzolini e la politica editoriale della Rai. Tuttavia il giornalista si dimostra estremamente professionale e liquida le aspettative dichiarando “se qualche collega in sala si aspetta da me un titolo di giornale gia’ pronto rimarra’ delusissimo”, sottraendosi cosi’ a quel sensazionalismo a cui aveva ceduto invece Tiziana Ferrario, la quale, nel corso dell’incontro su media donne e potere, aveva fatto un buon intervento ma di cui tutti ricordano solo la frase “quello che mi hanno fatto al TG1 e’ stata una grande porcata” (che, tra l’altro, ricorda in modo sgradevole una storica esternazione del ministro Calderoli).
Si comincia ad affrontare la questione in oggetto partendo dalla tesi espressa da Debenedetti nel libro “La guerra dei 30 anni: politica e televisione in Italia dal 1975 al 2008”: posto che solo in Italia i media rientrano nella proprieta’, o comunque nel diretto controllo, del capo del governo, Berlusconi ed il suo sistema non sarebbero la causa dell’anomalia attuale, ma il piu’ eclatante prodotto di una lunga serie di anomalie e conflitti ed interessi latenti nel panorama italiano dal secondo dopoguerra.
Secondo Debenedetti il problema non e’ il conflitto di interesse di Berlusconi in se’, quanto l’impossibilita’ di risolverlo, dimostrata dalla carenza di legislazione prodotta in merito dal centro sinistra.
La parte di discorso piu’ interessante non e’ quella sulla tre reti private del Presidente del Consiglio, in quanto e’ notorio che fungano da sua fabbrica del consenso, ma quella sulla Rai e le dinamiche che la guidano. Mardon denuncia come cancro del servizio pubblico la logica della lottizzazione operata dalla politica sulle tre reti Rai, senza risparmiare critiche alla sinistra, colpevole di averla messo in atto quanto e piu’ della destra.
Hooper, unico relatore straniero e percio’ investito del ruolo di osservatore esterno, conferma quanto sostenuto da Debenedetti nel libro ed esprime l’impressione che nel nostro paese i giornalisti televisivi non siano sol strumenti del potere ma anche servi del potere. C’e’ un certo stupore nella sua voce quando dice “solo in Italia c’e’ cosi’ tanta deferenza al potere in tv. Non ci sono counter-faces programs sul modello anglosassone in cui il giornalista miri ad affrontare e mettere in difficolta’ il poliico”.
Ai suoi occhi di inglese (e si tenga presente che per secoli l’Inghilterra ha potuto vantare il giornalismo d’informazione migliore del mondo, purtroppo compromesso dal massiccio avvento di Murdoch) risulta inconcepibile anche che un direttore si arroghi il diritto di fare editoriali in un servizio pubblico, o che decida un avvicendamento in redazione basandosi non su criteri strettamente professionali. E qui echeggia in sala la parola che tutti avevano pudore a pronunciare: epurazione. Di Giannantonio non voleva parlare di Minzolini, ma ci hanno pensato gli altri per lui.
Proprio a questo punto interviene il giornalista Rai e mi stupisce: per me e’ sempre stato un tranquillo “mezzobusto” che ogni tanto inciampa nelle parole quando legge le notizie, invece in questa sede si dimostra un giornalista appassionato e determinato a difendere il proprio lavoro. Non nega al direttore di un telegiornale il diritto di avere opinioni, ma definisce inaccettabile il punire la divergenza e il dissenso critico, che di solito sono considerati una ricchezza per la redazione. Ma, come sostiene subito dopo, la Rai non e’ mai stata davvero uno spazio di informazione ma di comunicazione autoreferenziale, e non ideologica, fra forze politiche (caratteristica esaltata dal celeberrimo “sistema panino” teorizzato anni fa da Mimun).
Di Giannantonio si dimostra ottimista per il futuro e tratteggia la sua visione del quadro fra circa 10 anni: una Rai sempre piu’ ingrigita e chiusa in se stessa, Mediaset per forza di cose cambiata ed indebolita dopo la scomparsa del suo spirito guida, i nuovi media finalmente diventati adulti che consentiranno di vedere chi sono i veri professionisti. Peccato che Madron e Hooper lo smentiscano subito, sostenendo che Mediaset ha gia’ dimostrato di essere un’azienda molto ricettiva al nuovo e che il effetti del berlusconismo si faranno sentire per decenni dopo l’effettiva scomparsa di Berlusconi. Probabilmente questo secondo scenario e’ piu’ realistico, ma preferisco credere (e con me molti giovani presenti) che sia sbagliato.
La discussione volge al termine e viene lasciato spazio alle domande. Una ragazza si rivolge a Di Giannantonio con un lungo giro di parole il cui senso finale e’: ha detto finora che in redazione si e’ sempre posto in una posizione di critica con ogni direttore, ma se ne e’ andato solo quando l’hanno cacciata e non per sua scelta. Il giornalista coglie la provocazione e si infervora, scaglandosi contro l’inaccettabile sistema “o stai con una squadra o stai con l’altra. Sostiene che “e una cosa infame indulgere ai potenti, che vanno invece criticati e controllati” aggiungendo poi “io non voglio essere in nessuna squadra: voglio solo fare il mio lavoro e per farlo ho anche rischiato la vita (…) chiunque voglia puo’ vedere il mio curriculum. Io non faro’ mai carriera, ma lo faccio scientificamente (…) perche’ il servizio pubblico deve essere un’altra cosa: deve essere ricerca dei fatti.” Entrando poi nello specifico della domanda postagli afferma che andarsene quando non si e’ d’accordo con quello che succede sul proprio posto di lavoro e’ inutile, ma bisogna rimanere e cercare di cambiare quello che non funziona con il proprio apporto critico. Solo quando si giunge all’estremo si puo’ optare per la rottura.
E’ proprio questo il messaggio migliore che il giornalista fa passare: scappare e’ da vigliacchi.
Valentina Selmi