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La pittura di Gaetano Porcasi: volti e colori contro la mafia

Non solo informazione, non solo arte. Quella di Gaetano Porcasi, insegnante di disegno e artista siciliano, è una voce diversa nel coro di quanti combattono contro la mafia con i loro scritti, le voci, i pensieri. Gaetano non è uno scrittore, ma racconta delle storie, non è un giornalista, ma il suo lavoro ha l’ambizione di informare, in particolare i giovani. Gaetano è un pittore, che un giorno ha deciso di usare i suoi quadri per denunciare la realtà della mafia nella sua terra.

Il Festival Internazionale del Giornalismo ospita una sua mostra, dal 20 al 25 aprile, all’interno della Rocca Paolina. La rassegna, che condivide lo spazio con altre tre collezioni di tema diverso, sempre nell’ambito del Festival, raccoglie una ventina di tele e si intitola “Volti, colori e memoria”.

Per primi, si scorgono i volti. Li riconosciamo, sono quelli di Giovanni Facone, di Paolo Borsellino, di Peppino Impastato.

“I miei non sono i tipici quadri da salotto – racconta Porcasi, che volentieri si ferma a spiegare il senso dei suoi lavori, dimostrando anche in questo la sua vocazione didattica – ma ognuno di essi è una pagina di storia”. Ogni quadro, infatti, è un collage di titoli di giornale riprodotti realisticamente, volti tristemente noti di vittime della mafia, oggetti simbolici come pistole e colletti bianchi, che non a caso appaiono capovolti. Su molte di queste tele, ben visibile, un numero civico: “Questi numeri indicano la data dell’omicidio della persona raffigurata nella tela – prosegue Porcasi, guidandoci con ampi gesti lungo l’esposizione – pensate una volta esposti tutti i quadri quanti numeri civici, quanti morti ammazzati. Negli anni ’80 sono stati più di mille”.

Oggi, almeno in Sicilia, di criminalità organizzata si può parlare senza temere per la propria vita, eppure “La paura è sempre dietro l’angolo – ci confida- io ho avuto per tre anni il telefono sotto controllo, e tanti mi dicevano di lasciar perdere, che io un lavoro sicuro ce l’avevo già”.

Il secondo aspetto di queste opere che salta agli occhi è la tecnica particolare. Perché anziché usare la fotografia, o il collage, Porcasi ha scelto una tecnica antica come l’olio, tanto più che le figure e la composizione delle sue tele appaiono così moderne, riproduzioni realistiche di volti e pagine di giornale giustapposti? “Ho voluto recuperare la tavolozza dei carretti siciliani, che erano dipinti con gli stessi colori forti che compaiono nelle mie tele, e rappresentano la capacità di questo popolo di andare avanti nonostante gli ostacoli. Ricordate quante civiltà sono passate dalla Sicilia? Ci sono stati i Borboni, poi i Savoia. Insomma la scelta della tecnica, ma anche della tavolozza, è significativa”. Anche i colori, dunque, sono custodi della memoria che Porcasi vuole trasmettere. Sì, questo signore è davvero un pittore-insegnante, o forse un insegnante-pittore: i suoi quadri hanno qualcosa da dire da qualunque punto di vista li si guardi. “Con i miei lavori mi rivolgo soprattutto ai giovani. Per via del mio lavoro sono sempre in mezzo ai ragazzi, e spesso quando faccio un quadro loro sono i primi a cui lo mostro. Cerco un nuovo modo per comunicare, e credo che attraverso il colore e il simbolo loro arrivino subito al messaggio, invece di dover leggere un libro lungo e magari noioso”.

Porcasi vuole far conoscere la storia e le ferite della sua terra, reinterpretando i saperi che gli derivano da una documentazione e ricerca approfondite: alle origini di ogni suo quadro ci sono conversazioni con storici, intellettuali, giornalisti. Ci avviciniamo al quadro più grande, che rappresenta due occhi dallo sguardo enigmatico, nascosti quasi completamente dai titoli delle maggiori testate internazionali, riprodotti con meticolosa fedeltà. “Questo è il mio regalo per il Festival. Era difficile fare un quadro su questa manifestazione: ho voluto rappresentare gli occhi che si aprono sul mondo, raccontato dall’informazione attraverso i vari giornali. Vedi? – indica poi una scritta in arabo – appena sopra lo sguardo, ho voluto scrivere il nome di Dio, Allah”.

Lou Del Bello

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