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Seymour Hersh: conosciamo meglio il giornalista Premio Pulitzer

Avere la possibilità di seguire una Lectio Magistralis presieduta da un premio Pulizer del calibro di Seympour Hersh, non è cosa di tutti i giorni. Per chi vuole intraprendere la carriera giornalistica, o è comunque appassionato di inchieste “scomode”, è un’occasione unica per confrontarsi con un maestro del genere. Dico questo, perché in Italia sono giunti solo echi lontani e confusi del suo operato, perlopiù diffuso approfonditamente dal web e dalla stampa specializzata. E’ una grossa pecca per il nostro sistema informativo, che spesso e volentieri da risalto a temi forti come le inchieste di Hersh per brevi periodi, dimenticandosi presto dei temi e degli argomenti che le riguardano. E’ proprio per questo che credo sia utile tracciare un profilo del giornalista statunitense, cercando di capire il suo operato parlando delle sue inchieste più importanti.

Nel 1968, mentre in tutto il mondo era impegnato tentare di cambiare se stesso, in Vietnam si combatteva una delle guerre più sanguinose della storia. E’ in questo scenario che, il 16 marzo, i soldati statunitensi della Compagnia Charlie, della 11a Brigata di Fanteria Leggera, compirono un massacro ai danni di vecchi, donne e bambini. Il massacro avvenne il a My Lai, circa 840 chilometri a nord di Saigon. In quel contesto molti abitanti vennero anche violentati e torturati. La bieca rappresaglia venne fermata grazie all’intervento di altri soldati statunitensi che si trovavano in ricognizione nella zona. Secondo informazioni militari, gli abitanti del villaggio avrebbero offerto ospitalità ai ribelli del Fronte Nazionale per la Liberazione del Sud Vietnam (conosciuti come Vietcong). Nonostante questo, i soldati non si fermarono e compirono uno degli eccidi più cruenti del conflitto vietnamita. La strage di civili, venne inizialmente fatta passare come conseguenza di una lunga battaglia tra comunisti e soldati statunitensi. Fu solo grazie a Hersh che il mondo intero poté accorgersi di quanto accaduto in quell’orribile giorno di Marzo. Tutto ebbe inizio grazie a una lettera spedita da un ex GI, Ronald Ridenhour, ad alcuni parlamentari americani, riferendo le voci che aveva raccolto fra i suoi commilitoni. Il problema maggiore che Hersh incontrò nell’approfondire l’accaduto era legato al pesante muro di omertà che i soldati e i loro superiori avevano retto a difesa di loro stessi. L’inchiesta ha portato ad un diffuso senso di condanna per l’operato dei soldati americani ed ha contribuito a ridurre il supporto dell’opinione pubblica statunitense alla guerra in Vietnam. La grande forza di quest’inchiesta alimentò il dissenso dell American peace movement, che reclamava il ritiro immediate delle truppe americane dallo scacchiere asiatico. Ha inoltre dato a molti giovani americani lo spunto per divenire obiettori di coscienza. Grazie a questa inchiesta Hersh, vinse nel 1970 il premio pulizer ed entrò nella storia del giornalismo mondiale.

Ad anni di distanza (2004) troviamo Hersh di nuovo in prima linea, con un’altra inchiesta dai toni forti. Questa volta riguardante le torture subite dai prigionieri nel carcere militare di Abu Ghraib (link all’articolo di hers http://www.newyorker.com/archive/2004/05/10/040510fa_fact). Anche questa volta Hersh colpisce nel segno e gli strascichi che seguono questa inchiesta sono notevoli. Ancora una volta i militari americani si rendono carnefici, oltre che carcerieri, di persone deboli ed indifese. Il rapporto ha portato ad un inchiesta sugli abusi subiti da 35 prigionieri nel carcere soprannominato «Hotel California». Sotto esame venticinque morti sospette, due omicidi da parte dei soldati, la morte di un evaso e dieci decessi in circostanze non chiare. Hersh scrisse che gli abusi erano parte di un progranmma di interrogazione segreta, noto come “Copper Green”. Stando ai fatti, il programma sembrava fosse approvato direttamente dal segretario della difesa Donald Rumsfeld. L’opinione pubblica americana venne quindi chiamata ad indignarsi non più per le umiliazioni e le oscenità imposte da un gruppo di teste calde ai prigionieri, ma a pronunciarsi su un dilemma cruciale: si tratta delle bravate di secondini senza controllo, o di direttive provenienti da ufficiali e dalla Cia? Anche questa volta il Congresso sembrava essere allo scuro di tutto fino a quando the newyorker non ha pubblicato l’inchiesta del premio Pulitzer. Bush e la sua squadra accusarono un duro colpo e ancora anni dopo Hersh è tornato a far sentire il suo fiato sul collo dell’ex Presidente USA.

Si parla questa volta di bombardamenti, armi di distruzione di massa presunte e mai scovate. Hersh con tenacia riesce a mostrare a tutto il mondo come l’amministrazione Bush abbia deluso la gente, facendo perdere agli stai uniti credibilità e peso. Ma allo stesso tempo dimostra come la stampa sia spesso pigra e non desiderosa di scavare veramente a fondo. Come ha dichiarato a La Repubblica, la ricetta per un buon giornalismo è essere curiosi, affidabili, trasparenti e corretti. “Mai cercare scorciatoie: se una fonte ti racconta una cosa e ti chiede di non scriverla tu non lo puoi fregare. E se fai un errore devi ammetterlo e correggerlo il prima possibile”.

Hersh è senza dubbio uno dei più importanti giornalisti del secolo e senza le sue inchieste, molto del giornalismo investigativo attuale non avrebbe ragion d’essere. Qui a Perugia siamo in molti ad aspettarlo, per ascoltare da lui una Lectio Magistralis che ci permetta di capire davvero cosa voglia dire fare inchiesta. In un panorama giornalistico spesso sterile e pigro, Hersh può essere una preziosa luce guida per tutti coloro che vogliono guardare oltre le notizie e oltre l’agenda setting che i media portano avanti.

In attesa di ascoltare le sue parole sul palco del Teatro Pavone, facciamo rimando all’intervista su La Repubblica, quando Hersh dà un consiglio prezioso a chi voglia fare un buon reportage:
“Devi leggere tantissimo, vedere molta gente, fare decine di interviste e prendere tanti appunti, devi avere una quantità eccessiva di materiale. Poi devi trovare il modo di comunicarla nel modo più semplice possibile. Se hai in mano una storia fantastica non lo devi dire, ma devi trovare il modo di farla parlare da sola”

Giovanni Ritacco

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