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Donne nei media. Intervista a Loredana Lipperini

Foto di Stefano Gizzi

Affrontare con le giuste parole il femminicidio, abbandonando gli stereotipi cui l’immagine femminile è ridotta dai media, è uno degli strumenti da utilizzare per “spezzare la cultura maschilista e promuovere una corretta informazione”. Non si deve parlare, allora, di una donna uccisa per troppo amore o per un raptus di gelosia, ma di una donna uccisa perché donna. Riappropriarsi del peso del linguaggio e delle immagini insegna la responsabilità, e rappresenta il primo passo da compiere per un’etica del raccontare.

Parliamo di immagini. Quali sono, a suo parere, gli stereotipi di genere più diffusi dai grandi media e, in particolare, dalla pubblicità?
Si tratta di una questione molto complessa. La pubblicità, come sostiene Annamaria Testa, è conservatrice. Tende non ad anticipare i cambiamenti ma a raccogliere quello che già c’è, a volte non percependo come le cose stesse siano in trasformazione. Riguardo la figura femminile, la pubblicità almeno in Italia vive di stereotipi. Il primo riguarda la rappresentazione della donna-madre, proposta senza che se ne comprendano le molteplici differenze interne. Lo studio di Annamaria Testa mostra come ricorra uno schema nella figura materna: la donna incinta ha sempre venticinque anni, bionda e vestita di beige o di bianco. La madre che ha già figli ha ventisette anni, questa volta bruna e indossa sempre una camicia azzurra. Rientra dal lavoro e la cucina, perfetta, è sempre illuminata da una stessa luce fioca proveniente da sinistra. Non c’è mai un uomo sovrappeso o con la barba, mai una madre quarantenne. La pubblicità propone immagini che non corrispondono alla realtà e alla multiformità delle famiglie. L’altra rappresentazione del femminile è quella sessuata: corpi nudi associati a qualunque tipo di vendita. È il recente caso di Clendy che, per pubblicizzare prodotti per la casa, utilizza l’immagine di un femminicidio. Dopo le polemiche, che Clendy ha etichettato come eccessive e bigotte, l’immagine è stata modificata: la donna è sempre nuda sul letto, solo che questa volta è ubrica, non morta. Tuttavia, è anche vero che le cose si stanno muovendo. Consiglio di visitare il blog dell’ADCI, l’Associazione italiana degli art directors, che sta per lanciare una petizione on-line contro gli stereotipi di genere nella pubblicità, e che ha chiamato a raccolta giovani creativi per realizzare il manifesto della campagna.

Come è possibile, a suo parere, decostruire gli stereotipi di genere?
Continuando a discuterne e comprendendo il vero significato delle parole. Credo non si possa più parlare di un giornalismo professionista separato dalla comunicazione via web. Una comunicazione ben fatta e approfondita online può avere maggiore impatto di una realizzata su carta stampata. È necessario che tutti assumano consapevolezza del linguaggio, mentre ho la sensazione – e questo è interclassista e intergenerazionale – che non si sia ancora consapevoli di come le parole scritte sul web vengano poi pronunciate nella quotidianità. Parola scritta, parola pubblica, parola comune. Fino a quando non si prende coscienza del peso del linguaggio, sarà necessario continuare a indicare le responsabilità di chi non utilizza le parole appropriate.

Le immagini possono avere delle responsabilità sulla violenza di genere?
Non credo siano responsabili. Come ho indicato nel libro scritto insieme a Michela Murgia, L’ho uccisa perchè l’amavo. Falso!, la violenza è antica. L’Italia definiva il delitto d’onore come una giustificazione del femminicidio e lo ha abolito solo nell’agosto del 1981: l‘ atto compiuto “nello stato d’ira determinato dall’offesa recata” rimane ancora la principale espressione utilizzata per giustificare il femminicidio. È un lavoro sulla cultura che va fatto. Intervenire sul linguaggio ma soprattutto sulla scuola: l’Italia è l’unico paese a non avere una legge sull’educazione sessuale. Ne abbiamo una ferma dal 1975 in Parlamento, mai approvata. Per quanto riguarda il linguaggio letterario, invece, la situazione è differente. Lo sguardo letterario non si impone, permette la riflessione. Autori come Roberto Bolaño e Stephen King hanno parlato di violenza non per un senso del politicamente corretto ma per essere stati in grado di assumere su di sé il problema. Stanno aumentando gli uomini che raccontano la violenza: bisogna dare loro spazio e voce.

Perché ritiene importante utilizzare la parola “Femminicidio”?
È fondamentale chiarire il senso delle parole. Il termine femminicidio è stato adottato in sede internazionale negli anni novanta ed è l’unica espressione che indica le donne uccise perché donne. Il negazionismo è, inoltre, uno dei problemi più gravi. In Italia, sono troppi i negazionisti del femminicidio e dei suoi numeri. È vero quando si dice che non si muore di più rispetto ad altri paesi: si muore di più in Svezia e Norvegia per violenza di genere.

In Italia il tasso di femminicidio sale.Cosa ne pensa dell’iniziativa One Billion Rising?
One Billion Rising ha permesso, liberando una carica di energia positiva e vitalità, di non rappresentare le donne come vittime, perché le donne non sono solo vittime. Ingabbiarle in una differenza irriducibile, per cui il femminile è sempre vittima –e soprattutto è sempre buono- non è la soluzione ma parte del problema.

Quali sono, a suo parere, gli aspetti positivi e negativi dell’uso del web 2.0?
L’aspetto positivo è quello di fare rete. Senza il web non ci sarebbero state iniziative importanti non solo per quanto riguarda la violenza sulle donne ma, in generale, riguardo iniziative civili. L’errore sarebbe scambiare, parafrasando McLuhan, mezzo e messaggio. La rete non è democratica: permette che multinazionali come Amazon, FB e Google diventino sempre più ricche. Il tecnocapitalismo è una cosa molto seria e non dovrebbe essere sottovalutato. Ma la rete è indispensabile, fornisce nuove possibilità. Trovo, tuttavia, molto pericoloso che all’interno della rete medesima non si possano avanzare critiche senza essere accusati di luddismo o di appartenere agli old media impauriti dalla rete. La rete ha i suoi lati negativi, non è un tecnofeticcio. Bisogna lavorare affinchè possa essere usata con responsabilità, cosa che adesso non avviene.

Marta Facchini

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