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Senza lavoro non si è liberi

Foto di Stefano Gizzi

La centralità del lavoro. Questo il tema emerso nell’incontro Storie di un’Italia che maledice. È Concita De Gregorio, forte dell’esperienza del libro Io vi maledico, ad aprire la discussione. Diverse le storie da raccontare, ma uno solo il segno che le traccia. Se il lavoro è il metro che consente di tracciare in modo coerente la propria identità, la mancanza di lavoro, così come le sue forme degenerate, produce nuove alienazioni, individuali e collettive. I nuovi sistemi di produzione ordinano al lavoratore di essere disposto al mutamento, di sapere assumere rischi e acquisire la capacità di pensare a breve termine e solo individualmente. Corrode, la flessibilità, il rapporto con la comunità e con la classe di appartenenza. E aumenta, sottolinea la De Gregorio, il “sentimento di solitudine di una generazione nessuno, ferma nell’immobilità di un unico presente”. Né muoversi in avanti né tornare indietro: è la condanna dell’eterno ritorno a colpire le nuove classi lavoratrici. Così la mancanza di un racconto che si componga di passato e futuro schiaccia in uno stato di incertezza permanente.

Landini – che la De Gregorio definisce il simbolo delle lotte sindacali novecentesche – riconosce il ruolo fondamentale del sindacato nei processi di emancipazione sociale. Ma solo a prezzo di un necessario rinnovamento: meno burocrazia, e più iniziative che coinvolgano direttamente i giovani, i cambiamenti principali. Strumento di coordinazione, il sindacato è la forma di cui le nuove generazioni devono riappropriarsi per organizzare una comune mobilitazione, mentre  le separazioni sono la debolezza da evitare. La contrapposizione ai modelli individualisti proposti dalle imprese può essere garantita solo dal recupero di una dimensione collettiva; occorre riunificare i soggetti affinché se ne garantisca la tutela. Tutto questo nel segno della partecipazione democratica: “edificare le condizioni che permettano l’esercizio del diritto fondamentale della libertà, riformando il sistema politico e delle istituzioni”.

C’è anche il punto di vista di chi ha deciso di partire, non senza amarezza. È il caso di Claudia Cucchiarato e Claudio Stassi: non unico, del resto, poiché “i dati aggiornati dell’AIRE hanno evidenziato un incremento del 30% degli italiani emigrati”. Io vivo altrove , progetto realizzato dalla Cucchiarato, fotografa la situazione “kafkiana” di chi parte stringendo in mano, invece che una valigia di cartone, una laurea e un progetto di ricerca. Ma, continua, narrare le storie degli expa significa anche mostrarne le contraddizioni nascoste. Dietro il cambiamento di cittadinanza non c’è solo la ricerca della stabilità lavorativa. Come evidenzia Claudio Stassi, che ora vive a Barcellona (“Palermo che funziona”), “è l’incapacità di sopportare la quotidianità, un senso di rabbia e di sconforto che spinge ad andare”. Che non spegne, però, il riconoscimento della necessità di un cambiamento: “non si può essere liberi senza lavoro. Necessario, allora, reinserire la questione lavorativa nell’agenda politica”.

Marta Facchini

 

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