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Gli avvocati stanno uccidendo il giornalismo?

La ricerca della verità, e di uno sguardo oggettivo sui fatti, è il pilastro essenziale del giornalismo investigativo. Se il problema dell’incolumità fisica del giornalista sussiste ancora, specialmente in alcuni Stati, l’altro grande ostacolo al lavoro d’inchiesta è la continua pressione degli avvocati, o meglio di coloro che li assumono per citare in giudizio autori di articoli ed inchieste. Alla Sala Raffaello dell’Hotel Brufani il giornalista e scrittore Richard Lindley ha aperto il panel Gli avvocati stanno uccidendo il giornalismo investigativo? affermando che la più grave minaccia per i giornalisti occidentali sia ormai rappresentata da “questi uomini in giacca a cravatta, pagati per farci causa, i quali hanno un effetto raggelante sulle nostre inchieste. Con la pretesa di difendere la privacy dei loro clienti stanno uccidendo il nostro lavoro”.

Lo stesso Lindley, moderatore dell’incontro, ha coinvolto nell’argomento John Kampfner, direttore di Index on Censorship, sulla situazione nel Regno Unito. La realtà inglese è una sorta di porto franco mondiale per coloro che vogliono citare in giudizio giornalisti e blogger appellandosi alle norme sulla diffamazione; la legge permette a stranieri di far causa ad altri stranieri appellandosi ai tribunali inglesi. Secondo Kampfner questa situazione, lesiva e soffocante per uno svolgimento corretto del lavoro d’inchiesta, deve essere modificata: “Nel 2009 abbiamo iniziato un azione di lobby in Inghilterra, pian piano siamo diventati forti e nel 2010 i tre maggiori partiti politici hanno promesso delle modifiche. A breve aspettiamo una bozza di legge”. E la situazione in Italia? Secondo l’avvocato e giornalista Guido Scorza le cose nel nostro Paese non sono affatto migliori per chi lavora in giornali e testate. Scorza è un esperto di nuovi mezzi di comunicazione e illustrando il suo pensiero sulla libertà in rete afferma: “Il web ci trasforma da fruitori a produttori d’informazione. Questo crea nuovi problemi da punto di vista giuridico perché le leggi esistenti sono pensate per l’universo chiuso dei tradizionali mezzi d’informazione e non per i bloggers, i quali scrivendo una certa cosa possono ricevere una querela pur non essendo giornalisti. Le nuove leggi dovranno chiarire se internet è uno strumento per pochi o tutti possono usarlo per esprimere senza ostacoli la loro opinione”.

Clive Edwards, direttore dell’attualità di BBC, ha raccontato che anche una grande rete come la sua subisce continuamente attacchi dai grandi studi di avvocati: “Molti legali usano nelle lettere che c’inviano un linguaggio da bulli, con minacce e intimidazioni. Sono molto preoccupato dal futuro del giornalismo investigativo anche perché dobbiamo usare sempre più soldi e tempo per difenderci”.

Marco Lillo, fondatore de Il Fatto Quotidiano, ha focalizzato la sua analisi sui meccanismi indiretti che molti soggetti economici mettono in campo per condizionare il giornalismo d’inchiesta: “Di solito la prima ritorsione attuata è sulla pubblicità. Dato che un giornale ha come principale fonte di reddito le inserzioni, se si scrive di una determinata azienda questa può far venir meno la pubblicità, mettendo nei guai il giornale”. Per Lillo ci sono alcune aziende che usano la pubblicità non per scopi di marketing ma solamente per mettere pressione alle testate. Se poi per Edwards si prendono di mira sempre i migliori giornalisti di una redazione per azzopparla, secondo Kampfner e Scorza un altro fatto importante da rimarcare è l’autocensura, un meccanismo che scatta in molti giornalisti che non scrivono di un certo fatto per paura o convenienza. In questi casi, fuori dalle aule di tribunale e da ogni tutela giuridica, è sempre il più forte a prevalere sul singolo professionista o sulla piccole testata, costringendoli a desistere dal pubblicare il materiale “sconveniente”.

Tornando ai problemi legali che affliggono molti giornalisti, Scorza ritiene grave che non ci siano in Italia e in Europa leggi che puniscano severamente chi cerca d’impedire la libera espressione di stampa. Ma se questo clima può in qualche modo deprimere chi vuole affacciarsi alla professione del giornalismo, le dichiarazioni finali di Lolli e Edwards non sono certo di resa.“Ormai il tempo che dedico a difendermi dalle cause mi assorbe come se fosse un secondo lavoro – dichiara Lolli – ma fare il giornalista è un lavoro bellissimo perché si porta alla conoscenza di fatti nascosti”. Ribatte Edwards: “Non è il momento di sentirsi depressi, grazie al citizen journalism ci sono grandi possibilità. Il sentimento di libertà che anima i giornalisti e gli aspiranti tali non morirà”.

Andrea Tafini

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