Sulle orme di Maria Grazia Cutuli. Intervista a Laura Silvia Battaglia (Avvenire)
Cosa ha provato seguendo le orme di Maria Grazia Cutuli in Afghanistan, una grande giornalista che ha perso la vita proprio in quel paese facendo il proprio lavoro?
Il rapporto con Maria Grazia Cutuli è una faccenda antica legata alla famiglia, perchè io sono catanese come lei, alcuni aspetti della mia professione li ho iniziati quando lei purtroppo li ha finiti. E’ stato importante trovarci lì, perché il messaggio della sua famiglia potesse andare avanti. Questa famiglia, lo voglio dire, in modo assolutamente cristiano, ha perdonato gli assassini della figlia e l’ha fatto dando vita a progetti reali di ricostruzione sul luogo e di sostegno di giornalisti che tentano di penetrare qualche verità.
Quali i rimedi per mantenere l’obiettività in contesti così difficili, ovvero senza prendere una parte piuttosto che l’altra?
Devi ascoltare tutti, non fidandoti di nessuno e facendo una scelta, sapere che se già accade in politica, nel lavoro, in cronaca bianca e amministrazione nella tua città, molto più accade nelle zone di guerra, ovvero ognuno porta con sé la propaganda, quindi la sostanza qual’é? Quello che mi dice il generale per me non può esssere oro colato, ma nemmeno quello che mi dice il capo dei ribelli. Cercare se si riesce, se si può, nei limiti della la sicurezza, di avere anche a che vedere con le persone, gli abitanti sul luogo, è la cosa più difficile, devi conoscere la lingua e avere anche una mobilità. Per quanto riguarda l’aspetto militare fidarsi un po’ di più dei soldati, che è bene che tutti lo sappiano, hanno degli ordini ben precisi di non parlare con i giornalisti.
Quale immagine le rimarrà per sempre impressa dell’Afghanistan?
A Bala Murghab ci sono delle postazioni avanzate nelle quali si combatte realmente, mortai, droni ecc. La cosa che mi è rimasta più impressa è lo sguardo di odio della popolazione del luogo quando i giornalisti passavano con i militari e non potevamo assolutamente scendere. Questo ad esempio è un segno del fatto che lì si combatte veramente, anche se la tua fonte dovesse dirti che è tutto a posto, la posizione della popolazione nei tuoi confronti, soprattutto nei confronti di un giornalista che arriva senza armi, senza kalashnikov, è sempre indicativa e significativa.
Quale la copertura offerta, a suo giudizio, offerta dai media cattolici che operano in Terra Santa?
Io credo che come media cattolici, siamo gli unici che sappiamo lavorare in quel territorio, non lo dico per incensare la nostra parte. Abbiamo risorse nell’Africa Sub-sahariana che sono superiori a quelli di altri media. Non solo i vescovi ma anche i frati stanno lì conoscono le realtà locali. La cosa più interessante riguarda il fatto che quando sei lì ti rendi conto di cosa significa dialogo religioso: ad esempio, nel Libano un villaggio musulmano dialoga molto meno con i cristiani maroniti che con i cristiani accanto e se non hai risorse sul posto queste cose non le sai. Credo che sul reporting media cattolici ci sono, stanno sul pezzo, sugli aspetti politici legati ai rapporti tra le Chiese, quella è un altra dimensione, ma è anch’essa dentro la Chiesa una dimensione politica.
I rapporti tra Vaticano e Israele sono spesso difficili, anche perchè la Chiesa in Israele è prettamente araba, cosa ne pensa?
E’ opportuno per rispondere a questa domanda conoscere i rapporti di forza all’interno della Chiesa. Tempo fa abbiamo pubblicato un pezzo in cui raccoglievamo testimonianze di cristiani d’Oriente che si sentivano cittadini dimezzati, la loro presenza in questi territori è un po’ costretta: sono una minoranza a volte anche linguistica, non avendo un dialogo totale con la Chiesa, si sentono un po’ poco riconosciuti. Su questo aspetto mi sembra che si stiano tendendo un po’ le fila per riuscire a ricostruire qualcosa.