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Il dietro le quinte del reportage

Fin dove si deve spingere la telecamera? Dove il giornalista è considerato un alleato nelle zone di crisi e dove un obiettivo da abbattere? Questi e tanti altri interrogativi ha cercato di spiegare Alfredo Macchi, autore di diversi reportage tra cui quello vincitore del Premio Ilaria Alpi.
Fare il giornalista di guerra è un mestiere molto difficile e pericoloso. Le difficoltà riguardano sia problemi logistici come trovare un posto dove dormire o un mezzo con cui spostarsi, oltre che la possibilità di divulgare notizie scomode.
Macchi è stato il primo giornalista italiano a raggiungere Kabul nel 2001 dopo la caduta dei Talebani.
Ha visto diverse zone del mondo in crisi: il Kosovo, l’Afghanistan, il Libano, il Pakistan. Si è occupato di reportage sui rifugiati politici e sugli immigrati.
Il suo ultimo reportage riguarda la condizione dei clandestini che arrivano in Italia attraverso i traghetti che partano da Patrasso, in Grecia. Sono ragazzi giovani, di origine afghana, che salgono sui camion nei porti di nascosto per poi essere scoperti e cacciati dalle guardie di Finanza di Ancona.
Ogni reportage è innanzitutto un racconto. Nel caso della televisione sono essenziali le immagini attraverso cui si deve sviluppare la narrazione. Non basta avere un’idea, bisogna pensare ai luoghi in cui riprendere, i protagonisti, i tempi delle riprese e i dovuti permessi. Gli elementi chiave devono essere mostrati in modo semplice ma accattivante. Si deve convincere lo spettatore a guardare tutto il reportage, con immagini forti ma rispettose dei soggetti coinvolti.
La telecamera non è sempre ben vista in certe situazioni, sta nell’intelligenza del giornalista sapere quando usarla e perché. Raccontare una storia e riuscire a trasmettere emozioni è il traguardo che ogni giornalista spera di varcare con il proprio reportage.
Francesca Di Felice

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